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Erano le tre meno un quarto del pomeriggio. Erano passati cinque minuti buoni nel mentre tergiversavo davanti all'aula del club di fotografia. Pur volendo, non avrei potuto tirarmi indietro a quel punto. Mi ero iscritta, ormai. In segreteria, c'era il mio cazzo di nome sul registro delle presenze di quelle lezioni e se mancavo, i "piani alti" della scuola, sarebbero venuti a saperlo. Ergo, mamma e Lex sarebbero venuti a conoscenza della mia, diciamo, codardia. Provavo ansia. E per la prima volta nella mia vita, riuscivo ad ammetterlo a me stessa senza autofustigarmi per essere stata in qualche modo debole. Non so da cosa avesse origine questa sorta di paura. Più che altro il mio cervello mi faceva sorgere domande che minavano la mia autostima. Cose del tipo "E se non sono all'altezza?", "E se i miei "elaborati" non soddisfano i requisiti richiesti?".
Camminavo avanti e indietro, resistendo all'impulso di mangiucchiarmi le unghie. Mi fermai di colpo, sentendo dall'interno dell'aula la voce dell'insegnante. Stava iniziando l'appello. Io, invece, feci appello a me stessa di smetterla di farmi mille paranoie, facendo un respiro profondo. Dovevo essere matura. Poggiai la mano sulla maniglia e, piegandola, spinsi la porta per entrare. Il signor Harrison interruppe la sua "lettura" dei nomi e mi guardò.
«Salve, signorina. Benvenuta al club di fotografia. Lei è?» Mi chiese con un sorriso che ebbe il potere di placare, di poco, le mie pippe mentali.
«Hale. Alexis Hale.»
«Bene, Alexis. Io sono Jacob Harrison. Accomodati dove ti piace di più e poi inizieremo con la lezione. Come dicevo ai tuoi compagni, questo è un corso dove si unisce l'utile al dilettevole.» Iniziò a fare, mentre io prendevo posto accanto ad una ragazza coi capelli rossi. Quel colore mi ricordava il pelo delle volpi.
«Voglio solo informarvi del fatto che non sono uno di quei professori tutti rigidi e convenzionali. Attraverso le mie conoscenze in questo ambito, vorrei farvi arrivare dei messaggi specifici. La fotografia non è un semplice imprimere su pellicola ciò che ci troviamo davanti all'obiettivo. Bisogna soprattutto vivere quel preciso momento e avere la volontà e la bravura di riuscire a cogliere quell'attimo attraverso la macchina fotografia, in modo che una qualsiasi persona che veda quella foto possa pensare o provare quello che voi avete pensato o provato in quell'istante. Vi sembrerà un discorso delirante di un insegnante di mezz'età qualsiasi, ma fidatevi, alla fine di questo percorso vi ricorderete di queste parole con una nuova consapevolezza.» Ero totalmente presa dalle parole che stavano uscendo dalla sua bocca. Ero colpita e su una cosa ero d'accordo con lui: non era come gli altri insegnanti. Lui ci sapeva fare con i discorsi e, di sicuro, riusciva a tenere l'attenzione di quindici persone su di sé. Si era già guadagnato la mia stima.
«Detto ciò,» continuò, alzandosi dalla sedia, «premetto che le mie prime lezioni saranno piuttosto noiose. Dovremo affrontare prima il lato "tecnico" della fotografia.» Prese un gessetto e scrisse alla lavagna.
«Cose come "Come è fatta una macchina fotografica?", "Chi l'ha inventata?", "In che anno?"».
I modi di fare del signor Harrison ci facevano pendere dalle sue labbra. Non ebbi nemmeno il tempo di presentarmi alla ragazza accanto a me. Il professore ci spiegò le varie componenti di una macchina fotografica, in che anno e dove fu inventata, ci mostrò anche alcuni dei primissimi scatti della storia. Senza rendermene conto, la sua ora era volata e me ne accorsi quando scoprii delusione in me, al suono della campanella.
«Ci vediamo alla prossima lezione, ragazzi.» Ci salutò con quella doveva essere la sua caratteristica principale: un sorriso smagliante. Afferrai il quaderno sul quale avevo preso appunti e l'astuccio, li riposi nello zaino di pelle nero e, quando alzai lo sguardo, trovai la mia compagna di banco in piedi, davanti a me.
«Ehi, ciao. Non abbiamo avuto modo di presentarci, prima, troppo prese dalla lezione del professor Harrison. Ho ritenuto fosse il caso dirsi almeno i nostri i nomi, cioè, insomma... Siamo vicine di banco.» Disse mentre le sue gote iniziavano a tingersi di rosso. Le allungai la mano destra, sorridendole.
«Sono Alexis.»
«Charlotte. Anzi, meglio Charlie. Nessuno mi chiama Charlotte.» Strinse la mia mano. Io mi alzai dalla sedia, mettendomi lo zaino in spalla.
«Charlie. Fantastico, è un bel soprannome. Tu puoi chiamarmi Lexi, se ti va.»
«Grande! Allora... Ci vediamo giovedì, Lexi. È stato un piacere conoscerti. A-anzi, se ti va qualche volta possiamo fare la strada insieme per tornare a casa. Oppure... no, no, pessima idea. Non so nemmeno se abitiamo vicine! Accidenti a me. Scusa, parlo troppo e divento invasiva.» Scosse la testa, si corrucciò una serie di volte e poi alla fine puntò i suoi occhioni blu nei miei, con aria sconfitta. Tutto ciò aveva un qualcosa di comico, tanto che mi scappò una risatina. Avevo davanti a me una semplice ragazza che cercava di farsi degli amici al liceo ed io non mi sentivo di negarle la mia compagnia.
«Ehi, ehi, frena un po' la lingua. Va bene una di queste cose che vuoi fare, okay? Ci becchiamo in giro, a scuola, e ne parliamo. Ora devo scappare, Charlie. Ci vediamo.» Le sorrisi ed uscii.

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