Capitolo V - Onboarding

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Il signor Seri, un tecnico non più nel fiore degli anni, entrò nella stanza al piano UG-3 portando sotto braccio un display olografico semitrasparente da 38 pollici e lo posizionò sbuffando su una scrivania libera.

«Eccoci qui bimbina!», esclamò il Seri con un marcato accento toscano. «Piacere, Renato!», porgendole la mano.

Lucrezia avvicinò la sua dicendo «Piacere!...», ma all'improvviso si sentì afferrare e tirare fin quasi a perdere l'equilibrio: «Guarda metti la manina qui un secondo... ecco fatto, vai!».

Quel simpaticone di Renato si divertiva a prendere in giro i nuovi ragazzi e a sorprenderli con i suoi modi stravaganti: così facendo aveva accoppiato lo schermo al bracciale di Lucrezia.

In realtà non si trattava di uno schermo, ma di una workstation completa. I componenti erano racchiusi all'interno del piedistallo, e l'alimentazione era fornita da una base a induzione nascosta nel ripiano. Gli schermi olografici, a dispetto dell'evocatività del nome, non proiettavano ologrammi a mezz'aria di per sé: quando venivano associati ad una coppia di lenti olografiche riuscivano a creare l'illusione di uno spazio tridimensionale tra l'operatore e lo schermo e con alcune applicazioni si poteva ottenere una sorta di "reazione fisica" degli oggetti proiettati al movimento in campo di oggetti veri. Questo risultava molto utile ad esempio per chi lavorava con il design industriale: si potevano posizionare oggetti, anche riprodotti in scala, nello spazio di lavoro, ed utilizzarli come stampi, o per ottenerne copie virtuali, inoltre si poteva lavorare con le proprie mani senza utilizzare guanti, tastiere o altri scomodi gadget. Ormai in ogni campo applicativo abbastanza evoluto si lavorava in 3D: i volumi e la complessità dei dati non potevano più essere gestiti con il vecchio paradigma della scrivania bidimensionale.

Lucrezia attese che Renato fosse uscito, forse a voler scongiurare qualche altro scherzo idiota, ma anche per ringraziarlo con lo sguardo. In fondo gli ricordava con simpatia i modi un po' burberi del suo babbo.

Appena si voltò verso il display, il piano di lavoro si materializzò a mezz'aria, parallelo al piano del tavolo, davanti agli occhi di Lucrezia. Era di colore azzurro, semitrasparente, con quattro "piastrelle" colorate al centro, nei classici colori di Windows; c'era una barra flottante a qualche centimetro dalla mano destra e una manopola vicino alla mano sinistra.

Mormorò «Hey, Genio, imposta le mie preferenze come default per questa postazione».

Il "desktop" svanì e la barra flottante si riadattò bruscamente scambiandosi di posto con la manopola: Lucrezia era mancina. Alcune icone apparvero, facendo allungare la barra di alcuni centimetri. Altre app che aveva tra le preferite non erano invece disponibili dal laboratorio, pensò, forse a causa delle restrizioni del firewall. Sul tavolo comparve una fotografia che galleggiava a mezz'aria in cui c'era lei da bambina con il babbo, la mamma e la sorella maggiore. Si soffermò un istante a guardarla e accennò un sorriso malinconico. Si ricompose non appena al centro dello schermo si aprì il browser che mostrava la scaletta dei corsi. Blincò sul primo.

Lucrezia si concentrò sui corsi: il primo era relativo all'organizzazione del laboratorio, a seguire c'erano quello sulla cybersecurity e sulla gender neutrality; infine quello sulla sicurezza sul luogo di lavoro, con corollario sulla corretta postura per gli operatori al "videoterminale". Era ridicolo, pensò: nessuno usava più un "videoterminale" da almeno 5 anni, le sedie in tutti gli uffici erano ormai obbligatoriamente in silicone reattivo, obbligando il corpo ad una postura corretta, e tastiere e mouse erano ormai oggetti di antiquariato. Senza parlare delle ololenti che erano clinicamente testate per evitare, e altrimenti alleviare, lo stress agli occhi. «E va bè!», sospirò, «diamoci dentro!».

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