Capitolo IV - Il problema del Berti

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La sala del team si trovava al piano UG-3, per una buona metà occupato dai server del laboratorio, visibili attraverso la parete semitrasparente lungo tutto un lato del corridoio. Le luci all'interno erano spente ma il lampeggio multicolore dei led di stato degli apparati evocava una strana atmosfera, buffamente natalizia, dato che era Giugno. Avvicinandosi alla porta scorrevole dell'ingresso si percepiva un ronzio soffuso, ma tutto sommato non fastidioso.

Sull'altro lato rispetto alla sala server, a sinistra dell'ascensore, c'era la sala riunioni da 8 posti, con poltroncine ergonomiche in acciaio e silicone reattivo nero. Il tavolo era un semplice ripiano bianco di forma rettangolare, con al centro una coppia di colonnine ottiche della Cisco e uno schermo olografico semitrasparente, lungo un paio di metri, usati per le conferenze in telepresenza.

Proseguendo lungo il corridoio da quel lato, si incontrava una piccola sala relax all'americana, dotata di alcuni comfort come frutta fresca, un frigorifero, un microonde, e un paio di distributori automatici.

Dalla parte opposta rispetto all'ascensore c'era la stanza del team, molto ampia, con scrivanie free-flow ad altezza regolabile e grandi display semitrasparenti. La parete opposta alla porta era tappezzata di fogli e foglietti, tra cui citazioni, fotografie, cartoline e vignette. Al centro erano posizionate tre file di display sottili e-ink capacitivi di grandi dimensioni, accostati a filo l'un con l'altro, usati come una grande lavagna. In un angolo, ad occupare un bel volume, c'era una postazione di stampa 3D di ​'penultima generazione'. Era, ingiustamente, schernita così da Giuseppe, che affermava fosse tale almeno da due generazioni... invece era uno strumento di grande pregio, preciso, affidabile e in grado, tra l'altro, di prototipare e clonare schede elettroniche fino a 244 millimetri di lato, compresi i componenti discreti, ammesso che non fossero al grafene: per quelli ci volevano ancora macchinari troppo specializzati.

La parete di fondo era invece in cristallo trasparente e al di là di essa si apriva un piccolo locale, all'incirca di 30 metri quadrati, pieno di armadi rack affiancati entro cui si svolgevano chilometri di sottili cavi gialli in fibra ottica, e chiuso con una serratura elettronica a consenso.

Questa era la computer room del nucleo centrale del General Artificial Intelligence Array, il progetto di intelligenza artificiale assegnato al team. Sulla porta era appeso un foglio di carta che sembrava scritto da una bambina su cui si leggeva "cameretta di Gaia".

Il GAIA era, come si evince dall'acronimo, un array di reti neurali de-specializzate, ovvero create originariamente con uno scopo specifico e poi private delle loro regole originali e rese, entro certi limiti, generiche. Questa schiera era gestita da una ulteriore rete neurale, derivata questa volta da una AI di diagnosi medica. Lo scopo di questo setup era di lasciare che il software di gestione provasse a fornire alle varie reti i dati in ingresso e ne analizzasse i risultati e i comportamenti con la propria rete neurale.

L'ipotesi da verificare, o da smentire, era che la rete principale avrebbe imparato come utilizzare nel modo più efficace ciascuna sottorete e che nel farlo avrebbe di fatto generato autonomamente una classificazione per ciascuna richiesta. La vocazione "medica" del nucleo era infatti specializzata nello scoprire correlazioni di causa-effetto, invisibili all'occhio umano, nascoste tra le pieghe di petabyte di informazioni.

Molte volte le correlazioni si rivelavano falsi positivi, ma disponendo dei risultati elaborati in parallelo da diverse architetture neurali, ci si aspettava che i falsi positivi sarebbero drasticamente calati per lasciare il posto solo a relazioni di causa-effetto reali e, si sperava, per lo più ignote.

Il potenziale di questa ricerca era enorme e poteva alimentare con spunti assolutamente originali la ricerca scientifica, le scienze applicate, la medicina e anche le scienze umane per decenni. Un sistema che avrebbe potuto analizzare direttamente e in tempo reale migliaia di test sugli acceleratori di particelle, oppure modellare la molecola necessaria per immunizzare il portatore di uno specifico DNA da un qualunque particolare batterio dopo alcuni secondi dalla richiesta. In pratica il Santo Graal della computazione, teorizzato perfino da Turing: un sistema che a partire da dati sufficientemente numerosi, accurati e significativi avrebbe potuto risolvere in un tempo finito qualunque problema che avesse ammesso almeno una soluzione.

O anche, avrebbe potuto causarne uno senza alcuna.

Il problema che assillava il professor Berti, che aveva ricevuto il rifiuto da parte dell'amministrazione ad investire più risorse nel progetto, era quello della spropositata fame di risorse di GAIA. Dario per l'intero primo anno al laboratorio aveva analizzato le componenti di GAIA ed era riuscito a crearne un accurato modello statistico; era giunto alla conclusione che qualunque aumento della capacità di processazione avrebbe richiesto un incremento esponenziale della quantità di unità di calcolo necessarie. Messa in termini semplici: per raddoppiarne la capacità occorreva il quadruplo dei calcolatori attualmente in uso; per decuplicarla, ne occorrevano cento volte tanto. 

«Attualmente GAIA ha la capacità di elaborazione di una gallina, è inutile se non diventa almeno un polpo!», aveva affermato Berti al CdA, gelandone i membri, con buona pace del segretario, il professor Gangi di Biologia, che iniziò a ridere scrollando il capo, non potendo evitare di immaginare il meme di Darwin che si schiantava un sonoro facepalm sulla fronte. Malgrado la fortunata metafora, il professore ebbe un aumento di budget a malapena sufficiente per un altro collaboratore, e da parte sua rifiutò di rivedere gli obiettivi del progetto al ribasso: questo non era accettabile da parte sua. Doveva tentare un approccio diverso.

Era venuto a conoscenza del profilo di Lucrezia quasi per caso, ad un ritrovo di ex-studenti; la sua amica, la professoressa Eugenia Scala della facoltà di Fisica di Ferrara, le aveva parlato di una studentessa molto in gamba che l'aveva stupita all'esame di fisica dei semiconduttori. Eugenia gli raccontò che aveva avuto una intuizione quasi geniale: era convinta che se fosse stato possibile controllare e regolare gli effetti quantistici su un semiconduttore sottoposto ad un campo magnetico, sarebbe stato possibile sfruttarli per creare delle copie 'virtuali' e funzionanti dei componenti logici discreti stampati sul semiconduttore. Questo significava, una volta eviscerati e risolti problemi pratici, una potenza di calcolo di vari ordini di grandezza superiore a parità di energia spesa.

La professoressa aveva avvertito l'innovatività dell'intuizione e si era proposta di farle da relatore per la tesi di laurea. All'inizio Luca aveva preso il racconto come un aneddoto, una storia raccontata dalla sua vecchia amica per farsi bella alla luce di una studentessa brillante, ma una volta messo di fronte alla ricerca di Dario l'aveva richiamata in fretta e furia per chiedere i contatti della promettente studentessa. Poteva essere proprio lei la chiave per risolvere il problema.

E così, dopo Ferrara, dopo Genova e dopo essere letteralmente scappata da una multinazionale olandese che voleva trattenerla ad ogni costo una volta terminato il suo stage, era tornata nella sua amata Firenze, con un incarico che sembrava fatto apposta per lei... non le sembrava possibile ed era felicissima.

Da quando la mamma era scomparsa Lucrezia si era dedicata interamente allo studio. Diceva di trovare conforto solo tenendo la mente occupata, affogando sui libri il ricordo del tragico incidente di otto anni prima. E così dicendo si era allontanata per trovare un modo di venire a patti da sola con il suo dolore. Non era mai stata una figlia particolarmente emotiva, e non sopportava l'idea che il padre dovesse sostenere e alleviare anche le sue pene. 

Non aveva colto il dettaglio che era il padre, più di lei, ad avere bisogno di conforto e che in quei giorni aveva il cuore colmo di felicità nel sentire di nuovo vicina la sua piccola ranocchia.

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