È qui, mi osserva, sempre, anche ora. Non ho più un attimo di tregua.
Tutto è iniziato alla morte di mamma.
Povera mamma, delirava, alla fine. Non faceva che chiedermi perdono.
«Di cosa, mamma? Non c'è nulla da perdonare.»
«Eri così piccola.»
Cercavo di tranquillizzarla, volevo che potesse andarsene in pace; ma ogni volta che, al placarsi dell'effetto della morfina, il dolore la strappava al suo dormiveglia, mi afferrava i polsi e riprendeva la sua tiritera.
«Perdonami. Non capivo. Non sapevo. Era tuo padre, credevo fosse tornato per occuparsi di te. Che ti amasse»
«Che dici. Di cosa stai parlando?»
«Non sapevo, non volevo. Quegli uomini. Le ombre, li chiamavi, eri così piccola, io non... Quando ho saputo... Perdonami. Eri così piccola».
Ha continuato fino al suo ultimo respiro. Erano così ossessionanti, le sue lamentazioni. Tra gli odori di medicinali e sudore, di disinfettante e urina, in quella stanza che respirava l'odore della morte.
Giorno dopo giorno, seduta accanto al suo letto, ho cominciato a sognarli, gli uomini di cui farneticava: figure incappucciate, ombre oscure.
Mi sono rivista bambina, a casa di mio padre.
«È un gioco, vedrai, forse avrai un po' paura ma è solo un gioco»
Quegli uomini, tanti, sconosciuti, tenevo gli occhi bassi, incollati al pavimento. Vedevo solo le loro ombre stagliarsi intorno al mio corpo, sovrastandomi, oscurando la luce.
Emergevo dal sogno immancabilmente a quel punto: le ombre sempre più vaste, vicine, il loro soffio sul mio collo, sentivo le mani avvicinarsi alla mia pelle. Poi mi svegliavo, nella stanza dall'odore di morte, accanto al letto di mamma.
Non erano ricordi, non potevano esserlo.
Non rammento bene quei mesi in cui papà, all'improvviso, riapparve nelle nostre vite. Per ricucire i rapporti con me, diceva. Per mamma era un sollievo avere qualcuno a cui affidarmi un paio di pomeriggi alla settimana.
Non ricordo granché di quei pomeriggi. Ricordo la mia stanza a casa sua. Era grande, con un immenso letto circolare.
Rivedevo esattamente la stessa stanza e lo stesso letto in quegli strani sogni che facevo accanto al capezzale di mamma.
Ricordo anche i regali, magnifici, che papà mi faceva ogni volta, riaccompagnandomi; era gentile con me, anche se non mi guardava mai negli occhi.
Non rammento molto di quel periodo, forse perché ero spesso malata, stanca, avevo dolori muscolari in tutto il corpo, febbre, lividi che non sapevo spiegare. Mamma era inquieta.
Forse per questo, dopo qualche mese, decise che non avrei più rivisto papà, non ricordo esattamente come sia successo, a un certo punto mi disse che non avrebbe più fatto parte delle nostre vite, mai più. E così fu.
Scomparve anche dai nostri pensieri, fino alle lunghe settimane di agonia di mamma. È stata lei a tirarlo in ballo, incessantemente, fino a farne un'ossessione.
Non potevo pensare ad altro, appena chiudevo gli occhi sognavo quelle ombre spaventose, mi sentivo impotente e terrorizzata, come una bambina indifesa.
Una di quelle ombre era più grande delle altre, più impressionante, più malvagia, lo so. Nei sogni sentivo la sua voce, mi dava i brividi, mi stringeva lo stomaco in spasmi violenti, ma al mio risveglio non riuscivo a ricordarne il suono, né cosa dicesse.