Per una notte con lei

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I

Non avevo mai tradito Anna, prima.

Ero già stato tentato, le occasioni non mi sono mancate, ma non so, una sorta di orgoglio, un codice morale, il piacere di sentirsi superiore, irreprensibile, immagino.

Qualunque sia la ragione, non lo avevo mai fatto. Fino all'altra notte.

Non darò la colpa al volo cancellato a causa del maltempo, anche se queste maledette tempeste sempre più frequenti sono una vera calamità per chi come me è sempre in viaggio per lavoro. Non darò nemmeno la colpa all'impossibilità di trovare una stanza libera in un qualsiasi albergo decente; questa stupida, anonima città sembrava essere diventata il centro del mondo, ora che nessuno poteva lasciarla a causa del maltempo.

Certo, potrei dare la colpa all'alcool: niente di meglio che una lunga serata in un bar, senza un cazzo da fare, per scoprirsi improvvisamente l'animo del beone. Ma devo riconoscere che servivano il miglior scotch doppio malto invecchiato dodici anni che abbia mai bevuto.

No, la colpa è solo mia: l'ho voluto, l'ho voluta. Dal primo momento in cui è entrata in quella sala. All'inizio ho potuto vederne soltanto le forme, fasciate in quell'abito. Devono averglielo cucito addosso, ho pensato. Il viso era nascosto, quando ha fatto il suo ingresso dalla porta in legno del locale; in controluce, sembrava un'ombra. La guardavo incedere e avvicinarsi allo sgabello su cui ero appollaiato, non avevo mai visto nessuno camminare così. Non erano solo i tacchi che portava e i fianchi incorniciati dal tessuto trasparente del vestito, no, sembrava quasi che volasse, che le sue suole non toccassero il pavimento. Forse era davvero così.

Quando è arrivata alla mia altezza, i miei occhi hanno incontrato i suoi e ho saputo che la volevo. E lei voleva me.

Potrei chiedermi se l'avrei voluta anche conoscendone le conseguenze, ma la risposta sarebbe sì. Dal momento in cui il mio sguardo si è posato su di lei più niente aveva importanza, tutto ciò che desideravo era toccarla, stringerla, sentirla, farla mia. Del resto, non ha senso chiedersi una cosa del genere: non avevo idea delle conseguenze, in quel momento, non avrei potuto nemmeno immaginarle, chi mai avrebbe potuto?

Sapevo solo che non potevo staccarle gli occhi di dosso. Nel locale nessuno sembrava riuscirci, tranne il barman che, da quando la porta si era aperta per lasciarla entrare, teneva gli occhi bassi, incollati al bancone. Ma allora non l'avevo notato.

Vedevo solo lei, respiravo solo lei, ho dovuto fare uno sforzo per aprire la bocca e domandarle: «Buonasera, posso offrirle qualcosa da bere?»

Mi ha sorriso e mi è bastato per sapere che avrei potuto uccidere, o morire, perché fosse mia.

«Quello che beve lei, ma offro io. Per scusarmi con lei a nome della mia città».

Ha detto quel "mia" come se la città intera le appartenesse, quasi fosse un ninnolo su uno dei suoi mobili, e forse è davvero così. Avrei potuto chiedermi come sapesse delle mie vicissitudini, ma in fondo erano in tanti lì a essere nella mia situazione, poteva averlo facilmente indovinato.

Abbiamo parlato, e bevuto, per ore. In realtà, anche se in quel momento non me ne rendevo conto, ero il solo a bere; a un suo cenno, il barman, sempre senza staccare gli occhi dal legno del bancone, ci aveva lasciato una bottiglia, da cui lei continuava a riempirmi il bicchiere. Forse cercava di intenerirmi, di ammansirmi, o forse ama l'aroma del doppio malto. Ma a questo ho riflettuto soltanto dopo, qui. In quel momento vedevo solo quella donna magnifica, di una bellezza soprannaturale, sorridermi e servirmi da bere.

Piccole storie oscureWhere stories live. Discover now