Capitolo 1

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Aprii gli occhi di scatto e presi un coccio di vetro da sotto il cuscino. Scesi piano dal letto, stando attenta a non far rumore e mi avvicinai a passo felpato alla porta. Arrivata davanti ad essa, controllai il corridoio dalle sbarre della finestrella evitando di toccarle. Era tutto deserto come al solito. Si sentiva solo il russare del ragazzo in fondo al corridoio e ogni tanto i passi della guardia di turno. Stavo per tornare a dormire, quando all'improvviso vidi un'ombra spuntare da sotto a una piastrella del pavimento di fronte alla mia cella. L'ombra fluttuò lentamente verso l'alto finché non arrivò davanti ai miei occhi. A quel punto si fermò. Non aveva né occhi, nè bocca, assolutamente niente. Sembrava un ammasso di oscurità deforme. Ma avevo in qualche modo la sicurezza che mi stesse osservando. Incuriosita e attratta dall'ombra mi avvicinai lentamente, come in stato di trance. Improvvisamente, suonò l'allarme e mi ripresi...Sentii la guardia che correva verso la mia cella. L'ombra non si era mossa, era ancora lì. Ma la guardia sembrò non notarla e dovetti ritornare a letto sotto le sue urla insistenti.

Quando riguardai verso la finestrella, l'ombra non c'era più






Venni all'improvviso svegliata dalle luci accecanti della mia stanza. "Buongiorno a tutti ragazzi e ragazze, è ora di alzarsi e cominciare la vostra giornata!" mi rigirai sotto le coperte sbuffando e mi misi un cuscino sopra la testa cercando di smorzare il suono della voce squillante e fastidiosa della 'vecchia sconosciuta', dato che praticamente nessuno l'aveva mai vista. Faceva bene a non farsi vedere, perché non era particolarmente amata da queste parti. In realtà non avevo mai visto fisicamente nessuna delle persone che continuavano a controllarci e a darci ordini come se fossimo delle cavie da laboratorio. Erano abbastanza intelligenti da non avvicinarsi nemmeno a noi. Le guardie che ci sorvegliavano erano robot, completamente assenti di intelletto, il cui unico compito era sorvegliare una certa area, agendo con violenza, se avvertivano una minaccia o che c'era qualcosa fuori posto, cioè sempre. In ogni caso ne erano rimasti davvero pochi. Quando passavi per i corridoi ne vedevi pezzi attaccati ovunque: sul soffitto, ammucchiati in un angolo, perfino fusi col muro. "Avete tre minuti per prepararvi da questo momento". Mi alzai di scatto facendo cadere le coperte. Se non fossi uscita in tempo sarei dovuta restare chiusa in camera tutto il giorno, senza mangiare né bere. Avevamo delle camere senza finestre, del tutto prive di ornamenti, la mia aveva solo qualche decorazione, creata da me, che non sapevo disegnare. Corsi verso un angolo della stanza, dove il giorno prima avevo buttato a casaccio la spazzola semidistrutta che avevo costruito alla bell'e meglio qualche mese prima dopo aver sfasciato la precedente. Presi l'uniforme logora che avevo buttato accnato al letto e me la infilai velocemente, poi mi misi i calzini e le scarpe. Proprio mentre stavo per andarmene mi ricordai di mettermi i miei inseparabili occhiali da sole con la montatura nera. Dopodiché corsi verso la porta e la aprii. Quando uscii si chiuse da sola dietro di me. Le porte si sarebbero riaperte stasera, quando saremmo tornati a dormire. Come tutti quelli che avevano voglia di uscire, mi girai verso la ragazza della cella di fianco alla mia, che a sua volta si girò verso il ragazzo della cella accanto alla sua, finchè non formammo una lunga fila di persone di tutte le età. Guardammo tutti davanti a noi, e al via della vecchia ci dirigemmo verso la mensa a passo più o meno regolare.

Sembravamo degli stupidi soldatini giocattolo, ma dovevamo fare quello che ci dicevano: oltre al fatto che le guardie ci sorvegliavano, dovevamo ubbidire se volevamo avere una possibilità di uscire di qui. Come sempre, per distrarmi e non dare fuoco a tutto in preda ad un istinto omicida, osservai la ragazza davanti a me. Si chiamava Banana, o almeno era così che la chiamavano tutti. Quando i bambini arrivavano qui, nessuno sapeva come si chiamavano, quindi, i ragazzi più grandi sceglievano loro un nome. A volte erano davvero crudeli. Aveva i capelli scuri raccolti in una coda alta, era alta e slanciata e come sempre era vestita di giallo. Aveva un non so ché di calmante, tipo come la camomilla. Forse per merito del suo talento, che era uno dei talenti più stupidi che avessi mai conosciuto. Praticamente il fantastico talento che l'aveva fatta spedire fin qui, consisteva nel far crescere erba. Erba. Solo che era gialla, tipo paglia. L'unica cosa positiva del suo talento, era che ora avevamo tutti dei materassi. O almeno chi aveva qualcosa da darle in cambio, o chi l'aveva ricattata. Ogni tanto riusciva a far crescere una banana, così dal nulla. Avevano un gusto decente, anche se un po' amarognolo. Eravamo talmente in profondità che non arrivava nemmeno un piccolo raggio di sole, che in teoria avrebbe dovuto far crescere le piante in modo naturale. Se per qualche miracolo la barriera si fosse rotta, saremmo morti schiacciati dalla pressione dell'acqua prima ancora di avere il tempo di annegare. Per cui all'esterno non c'erano forme di vita animali e vegetali commestibili, o almeno facili da acchiappare. Si dice che ci siano forme di vita mai viste sulla terra, forze oscure e mostri potenti, che da millenni continuavano a crescere e a rafforzarsi nell'oscurità degli abissi. Se fossero salite in superficie, nessuno avrebbe avuto scampo. Non sapevo di preciso di cosa si cibassero, ma non credevo proprio che mangiassero piccoli pesci come le balene. D'altronde però non potevo muovermi da qui e non sapevo cosa ci fosse all'esterno di questa enorme barriera. Non sapevamo come facessero a mandarci fin qui, ma i nuovi arrivati apparivano in quella che chiamavamo la Stanza dei Pivelli. Ogni tanto arrivava anche qualche bestia strana, che aveva combinato qualche guaio imperdonabile, tipo Moc. Aveva il corpo di una mucca con tanto di piume bianche e nere, le ali e la testa di una gallina, sprovvista della tipica cresta, ma con al su posto un assurdo corno argentato. Produceva sia il latte, che però invece di essere bianco era argento, che le uova, che avevano la forma di lettere dal guscio colorato. Usava quelle per parlare, noi dovevamo metterle in ordine e capire cosa volesse dire. Se ne aveva voglia faceva un coccodè per dire se le avevamo messe nel modo giusto. Grazie a questo metodo avevamo capito come si chiamava. Ovviamente nessuno lo mangiava, altrimenti niente latte ne uova. A parte le rare banane, non c'era molto altro che potessimo mangiare. Immersa nei pensieri, non mi accorsi nemmeno che eravamo entrati in mensa e che tutti avevano rallentato il passo per prendere i vassoi, e per poco non andai a sbattere addosso a Banana. Nessuno osò dirmi niente per la mia sbadataggine. Non ero molto in vena di sentire la voce degli altri la mattina, quella registrata della vecchia bastava e avanzava. In realtà, neanche nel resto della giornata, ma specialmente la mattina. Mi guardai intorno, molti erano già al tavolo, alcuni probabilmente dal giorno prima. A quanto pare qui dormire a letto era un optional. Sbuffai per la lentezza immane di Banana, ma restai comunque in fila riuscendo a resistere all'impulso di spingerla via e superarla, come stavano facendo tutti quelli davanti a lei, ma che non osavano farlo con me. Quando finalmente arrivai davanti al cibo, presi un bicchiere di latte. Ovviamente le uova erano già finite.

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