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Il sole di Atlanta mi colpisce al volto non appena metto piede fuori l'istituto. Sospiro, scendendo la scalinata di marmo; ultimamente sono un po' meteoropatica, seppure non in maniera convenzionale. Odio il caldo, le giornate soleggiate, i raggi tiepidi che mi riscaldano la pelle e riportano indietro la mia memoria a tre anni fa, a quando la mia vecchia vita mi ha preso a coltellate, e io ho deciso di lasciarmela alle spalle. Sono passati tre anni da quel giorno, tre anni dall'inizio della fine, e ogni giorno fa male come il primo, ogni giorno fa male più del primo.

E a questo sordo strazio che mi riempie il cuore si aggiunge questo stupido sole, che fa capolino da dietro i banchi di nuvole e sembra inneggiare alla vita, alla gioia, alla fortuna che abbiamo di vivere i nostri giorni ed essere partecipi delle bellezze che il mondo spalanca davanti ai nostri occhi, mentre tutto ciò che a me fa ricordare è l'ennesimo funerale, la fine di una vita, spezzata bruscamente e non fortunata abbastanza da stare qui a godere di queste meraviglie come chiunque altro. Dov'è la giustizia, in questo? Perché il sole rende la gente più allegra del solito, l'atmosfera più leggera, perché ci sono sorrisi ovunque sulle persone che mi camminano accanto, mentre tutto quello a cui io riesco a pensare è a quanto schifo, a quanto dolore, a quanta merda ho dovuto sopportare e continuerò ad affrontare per il resto dei miei inutili giorni? Non c'è bellezza, in questo. Non c'è onore. 

Ed è per questo che considero le giornate di sole il mio inferno personale.

Atlanta mi era sembrata una scelta discreta, tre anni fa, quando mi sono messa in macchina sapendo da dove partivo ma non sapendo dove sarei arrivata. Dopo sette ore e mezza di guida la scelta era ricaduta nella capitale della Georgia, che quella notte sembrò accogliermi come una mamma amorevole e preoccupata, e il mattino dopo la voglia di rimettermi alla guida era pari a zero. Che differenza poteva fare un giorno più o un giorno in meno, nel vasto quadro dell'universo? Mi ero ripetuta questo per la successiva settimana, e anche quando ho trovato un lavoro part-time, e anche quando ho deciso in una sferzata di ottimismo che non volevo buttare la mia vita in questo modo – non quando così tanti l'avevano persa, mentre io ero stata graziata. La Emory University mi era sembrata una scelta più che adeguata, tre anni prima, considerando che avevo lasciato la mia casa senza una meta precisa e mi ero ritrovata con una limitata gamma di opzioni. Quindi, che facoltà di Medicina sia! E dopo i furiosi litigi iniziali i miei si erano rivelati piuttosto arrendevoli, soprattutto dopo avergli fatto presente che in ogni caso avrei lasciato Riverside Hill per iscrivermi all'università. Certo, non sarei scappata all'improvviso da un funerale come una profanatrice di tombe colta in flagrante, ma questo non cambia il succo della questione. Me ne sono andata. Guardate, l'ho fatto. E non metterò mai più piede a Riverside Hill.

I miei arrendevoli genitori mi aiutano a pagare la retta, perché non potrei mai farcela da sola, ma i contatti con loro si sono molto deteriorati. Succede, se scappi di casa come una minorenne incinta e giuri di non rimettere mai più piede in quel buco del cazzo. Probabilmente non hanno gradito molto i miei saluti. O forse la scelta di parole.

Anche per oggi le lezioni sono finite, e con la mia consueta gioia mi dirigo verso casa, un piccolo appartamento con due stanze da letto che condivido con la mia coinquilina, Beth. Il fatto di rivederla contribuisce ad accrescere la mia allegria; la fronte aggrottata e le labbra contorte in una smorfia ne sono un chiaro indizio.

Il fatto è che Beth è strana, ma di sicuro non quanto lo sono io. Potrei passare sul fatto che qualche mattina mi ritrovo a fare colazione senza latte, perché uno sconosciuto che ha passato la notte da lei l'ha bevuto direttamente dal cartone e ugh, schifo. Potrei passare anche sul fatto che ogni due per tre mi ritrovo col lavandino fucsia, o blu fluo, o con le mattonelle verde acido, perché quando si fa la tinta tende ad essere un po' casinista. E decisamente potrei passare sul fatto che la musica punk rock che ascolta mi tiene sveglia la notte, e che ruba le mie matite e il mio smalto nero, e che quel gatto orrendo che tiene mi piscia sul tappeto o si ruba i miei biscotti, ma i suoi sguardi... Su quelli non riesco a sorvolare. Beth è pazza, si svende troppo facilmente con gli uomini, la sua massima ambizione è fare la commessa da Abercrombie e ha dei gusti di merda in fatto di vestiti, ma tra le due quella che ha qualche problema sono io. E lei se ne accorge.

Ed io la evito.

Normalmente il pomeriggio dopo i corsi non rincaso subito, perché so che lei è ancora a casa e non inizia il turno al supermercato prima delle sette; ma oggi mi sento peggio del solito, mi sento sfinita come se avessi corso una maratona, e nonostante il sole – anzi, proprio grazie a questo sole di merda – mi sembra di vedere tutto nero, come se una patina di sfiducia avesse ricoperto i tetti delle case, e i palazzi, e tutto il mio mondo. Mi capita spesso, a dire la verità, ma ultimamente succede ad intervalli più brevi: prima era un giorno sì e una settimana no, adesso non riesco a resistere per più di dieci ore. Le mani mi tremano, il cuore mi sembra rimbombare fin dentro le orecchie e i rumori del traffico mi arrivano ovattati, e tutto a quello a cui riesco a pensare è che sono in astinenza. Cazzo.

Corro dentro casa sbattendomi la porta alle spalle, grata per una volta che la mia coinquilina stia facendo la sua giornaliera sessione di yoga mistica e abbia tirato tutte le tende. La penombra sembra alleviare il mio stato confusionale, ma non è abbastanza. So io cosa lo è, ed è troppo presto. Merda, merda, cazzo.

Beth interrompe le mie mute imprecazioni per rivolgermi la parola; succede tipo una volta al giorno, se sono fortunata anche meno. «Già a casa? Dovresti sapere che inizio il turno tra un'ora.»

«Stai zitta, Beth. Mi scoppia la testa.» La me di tre anni fa avrebbe molto da ridire su quello che sono diventata ora, a partire da come ho fatto terra bruciata intorno a me per chiunque abbia osato avvicinarsi. Ma io tendo a non ascoltarla, o almeno a cercare di non farlo: la vecchia me è morta. Insieme a tutto quello che ha conosciuto di bello.

«Sei più acida del solito, oggi. Sei in premestruo?» domanda.

Apro il frigorifero, cercando qualcosa di forte. La sfiga è quando hai ventuno anni e puoi bere legalmente in America, ma il tuo frigo è sconsolatamente vuoto. Prendo un succo di frutta. «Ha-ha. Ma non dovresti concentrarti per aprire i tuoi chakra o qualche cagata del genere?»

«Forse è per la giornata. Ho notato che peggiori quando c'è il sole, sai?» continua lei, indifferente alle mie parole.

Sbatto la bottiglietta sul tavolo. «Beth, stai zitta

«Uh-oh.» I suoi occhi scuri corrono alle mie mani, che tremano incontrollabilmente. «Sei in–»

«Non lo dire» la interrompo, glaciale. So che è così, so che ha ragione, ma finché non viene fuori ad alta voce posso fingere che non sia vero. Finché non lo dice, posso fingere di non starmi distruggendo la vita lentamente.

Lei mi guarda, coglie l'ammonimento nelle mie parole, e tace. Finalmente un po' di silenzio, grazie a Dio. Mi chiudo in camera mia, buttandomi sul letto e coprendomi il viso sul cuscino, così da attutire ogni rumore. E urlo, urlo come quasi ogni notte, finché la gola non mi fa male e gli occhi mi lacrimano.

Poi sposto il cuscino dietro la testa, mi ci appoggio con gli occhi chiusi, e aspetto che il sole tramonti.


Pensieri? Dubbi? Perplessità? Critiche? Complimenti? Consigli?
Sono qui per ascoltare tutto. xx
(PS: ascoltate la canzone mentre leggete!
PPS: Ouija è in fase di editing e ho apportato alcune modifiche alla scrittura. Se avete voglia di rileggerla, magari fatemi sapere se vi piace c: )

Pandemonium | official Ouija sequel [h.s. au]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora