V. Incontri inaspettati

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Alice

Un'altra giornata scolastica è alle porte ed ormai, la prima cosa che faccio è cercare le risposte di Caronte dietro la macchinetta. Salgo velocemente le scale che mi separano dall'aula in cui oggi avrò sostegno per le prime tre ore della mia giornata scolastica. Percorro due scalini per volta, con la bramosia di sfiorare la sua busta ruvida, con il fiatone che non si fa attendere di fronte allo sforzo che sto facendo.
Ed eccomi qui.
In corridoio non c'è nessuno. Tiro su la manica del mio golfino. La mano si infila dietro la famosa "Divoratrice di bicchierini". Ma...la busta? Sento qualcosa di secco pungermi le dita. Cosa diamine...?
Sfilo la busta, la sento sul palmo della mano insieme a...delle foglie autunnali. Il loro colore rossastro mi lascia pensare che non siano una casualità. È stato lui a metterle?
«Alice sei in ritardo, sbrigati!» e di nuovo la voce della Moriggi interrompe le mie fantasie. Come fa quella donna a parlare sempre nel momento sbagliato? Diamine, sono arrabbiatissima. La raggiungo con la busta nascosta in tasca e le foglie fra le mani.
«Scusami, stavo buttando il bicchierino del caffè.» mi guardo intorno mentre le parlo, non ho proprio voglia di starla a sentire oggi.
«Non preoccuparti. Marco è già in classe.»
Mi prende il panico:«Marco?»
«Sì, te l'ho detto l'altro giorno che un ragazzo ha iniziato un progetto BES e ogni tanto starà con noi.»
Calma Alice, calma, calma, calma!
Detesto le persone. Non ho più fiducia in loro e l'idea di dover condividere questo spazio mi fa sentire a disagio. Non è mai piacevole per me stare in compagnia; la mia solitudine ormai ha iniziato ad essere uno stile di vita, non più un mero piacere. E poi...devo fare in modo che l'apparecchio acustico non si veda. Mentre Sara entra io mi sistemo i capelli di modo che il mio tallone d'Achille resti più che un segreto. Stringo forte i piccioli delle foglie, cerco l'appoggio di Caronte. Placa la tachicardia Alice.
Varco l'uscio dell'aula e scorgo un ragazzo seduto al mio posto. Sembra alto, non è molto magro, ma le gambe scoperte dai bermuda lasciano intravedere muscoli delle gambe ben delineati. Non alzo lo sguardo, non voglio guardarlo ancora. Mi sento intrappolata.
«Hai un mazzo di foglie bellissimo.»
Ha una voce calda e quel che dice mi sorprende così tanto che mi volto verso di lui, arrossendo visibilmente al pensiero di Caronte. Quanto sono felice per questo suo piccolo dono!
«Oh. Grazie.» rispondo, cercando di sorridere, ma sulle labbra mi si disegna solo una smorfia sghemba.
«Allora ragazzi siete pronti?» chiede Sara appoggiando la borsa sulla cattedra:«Avete qualcosa da recuperare, di arretrato o in cui avete difficoltà?» sia io che Marco facciamo un cenno di diniego con la testa. Sara ci guarda, quasi svogliata.
«Allora se non è un problema per voi scendo a controllare Mattia. Sonia mi ha detto che gli sta dando delle belle gatte da pelare.» annuiamo entrambi. Sara esce e a me iniziano a sudare le mani. Ed ora? Che faccio? Tiro fuori la lettera e la leggo? Ed ora dove mi siedo?
«Giuro che non ho mai mangiato nessuno.» la voce di Marco occupa la stanza. È una voce profonda, si imprime fin dentro i muri. Mi avvicino piano, mantenendo un banco di distanza da lui. Non rispondo, l'ansia mi spezza le parole in gola ed i miei denti hanno una presa salda sulla mia lingua.
Apro lo zaino, ne estraggo la mia nuova lettura fresca di giornata: Peter Pan, di James Matthew Barrie.
«Ti piace leggere?» mi chiede Marco, che con una mano sposta i ciuffi ribelli dei suoi capelli castani.
Annuisco silenziosa in risposta. Vorrei solo che mi ignorasse, che se ne andasse, che non mi facesse sentire così a disagio.
«Anche a me, molto. Vuoi dare un'occhiata al libro che sto leggendo?» ai libri non si nega mai una lettura veloce, giusto? Ed è così che annuisco ancora mentre lui apre lo zaino. In un minuto mi ritrovo fra le mani una copia di Marina, uno dei miei libri preferiti di Zafón.
«È uno dei miei preferiti di questo autore. Ti sta piacendo?» è troppo tardi per fermarmi. Parlo così poco e con così poche persone di libri che, appena qualcuno accenna al discorso, parlo a raffica di tutto quello che ho letto, di cosa ne penso, di cosa mi è piaciuto e cosa no.
«Parecchio, sai? Pensavo che nulla di suo mi sarebbe potuto piacere più de Il gioco dell'angelo. È davvero uno scrittore eccellente.» fa una breve pausa, gioca con le pagine del libro:«Hai letto altri suoi romanzi?»
«No. Sì. Cioè, ecco...li ho letti tutti.» imbarazzata ed inevitabilmente rossa come il vestito che ha apprezzato Caronte, abbasso lo sguardo sul mio libro, stringendo forte i pugni. Sono in un incubo. Coscienza dove sei finita ora?
«Questa è una cosa fantastica, non trovi?» lo guardo con la coda dell'occhio. Sorride. Sorride nel modo più candido e sincero che abbia mai visto. Non smetto di arrossire.
«S-Senti io...so che non si può ma...insomma, esco a fumare una sigaretta. Se Sara torna dille pure dove sono.» balbetto, alzandomi piano dalla sedia portando con me il libro.
«Vengo con te.»
«No.» ho risposto di getto, senza badare alle conseguenze della mia risposta.
«Allora andrò da solo nello stesso posto in cui andrai tu. Suona meglio così?» Marco ride, io sento un po' della tensione che ho nel petto sciogliersi.
Sopravvivrò?

Marco

Starle vicino è qualcosa di incredibile. Quel mazzo di foglie... a sapere che le sarebbe stato così bene fra le mani le avrei regalato le fronde di un albero intero.
Mentre le accendo la sigaretta penso a come liberarla dalla sua compostezza; a come usare la fiamma che ho nel petto solo per lei. Come posso spingerla a parlarmi? A provare simpatia per il suo Caronte in carne ed ossa?
«Spero di non averti infastidita in alcun modo.» esalo la prima boccata mentre guardo il marciapiede all'esterno della scuola.
«Perché dici questo?»
«Perché sembra che la mia presenza sia una scocciatura per te.»
«Marco per piacere, non fraintendermi. Non mi piacciono molto le persone.» sospira, tenendo le braccia conserte sul petto:«Sono poco avvezza alla compagnia, se così si può dire.»
«Lo comprendo, ma penso di non essere poi così male come persona.» rido:«E soprattutto, non essere abituati alla compagnia non vuol dire che tu non ne possa trovare di buona.»
«Touchè.» fa cadere la cenere della sigaretta oltre la ringhiera delle scale e sospira ancora:«Si può sapere da cosa deriva tutta questa insistenza?»
«Per almeno sei ore la settimana ti toccherà condividere parte del tuo tempo con me. Non vedo cosa ci sia di male nel diventare amici.» mi infilo le mani intasca, guardandomi le punte delle scarpe nere.
«Forse semplicemente non ne voglio, di amici.» la sua risposta brusca e disinteressata mi lascia dentro un senso di amarezza indefinibile. Lancio la sigaretta ormai finita nel prato sottostante, ho bisogno di stare da solo. Mi dirigo verso la porta, Alice mi lascia andare ed io mi sento vuoto dentro.

***

«Com'è andata a scuola?» la voce di Christian esprime buone intenzioni, ma quando mi giro verso di lui capisce che qualcosa non va. Mi allaccio la cintura di sicurezza e aspetto di sentire il rombo del motore. Christian però non parte.
«O sei innamorato o non hai preso la terapia.» il suo tono è quasi ironico. Guardo il cemento grigio ed omogeneo del garage:«Perché non entrambi?»
Sorride.
Partiamo.
La strada che ci separa dall'ospedale in cui papà è ricoverato non è molta. Alla radio la voce di Birdy mi avvolge nelle sue note, accarezzando la mia tensione con la sua voce leggera:
«People help the people
And if you're homesick, give me your hand and I'll hold it
People help the people
And nothing will drag you down»
Passano dieci minuti prima che il rombo del motore e la musica alla radio cessino di essere una buona compagnia. Il percorso è monotono, lo ripeto ormai quasi ogni giorno da quando hanno ricoverato papà. Le infermiere mi riconoscono ed io so, senza più bisogno di chiedere ad alcuno, che il reparto di oncologia è al terzo piano, stanza 3A. Nello zaino sento la copia dell'opera preferita di papà pesarmi come un macigno sulle spalle.
Entro nella sua stanza, quella in cui oggi papà è reduce del primo ciclo di radioterapia. Ha gli occhi socchiusi e non mi sente entrare. Mi chino su di lui, sul suo corpo gracile che una volta mi teneva sulle spalle, gli lascio un bacio sulla fronte:«Ciao papà.» stringe flebilmente il lenzuolo che gli copre le gambe. Mi alzo per riempirgli il bicchiere d'acqua, che poi lo aiuto a trangugiare con fatica.
«Come stai Marco?» la sua voce si infrange, è roca, bassa. Tossisce ed i dolori gli attanagliano il petto. È sciupato in volto, ma nonostante ciò non smette di interessarsi a me. Appoggio lo zaino accanto alla sedia in plastica blu, ormai quasi inchiodata accanto al suo letto:«Bene, papà. Come ti senti tu? Com'è andata la prima seduta?» papà sospira e cambia argomento:«Hai portato il libro?» sorridiamo insieme. La sua indole da professore di lettere arde sempre nel suo intelletto. È una delle cose che più ammiro di quest'uomo consumato da un cancro allo stomaco. Annuisco e mi chino per aprire lo zaino, pronto per sfoderare la rinomata copia de l'Orlando furioso di mio padre.
«Marco, vieni un attimo.» la voce di Christian mi risveglia dall'eccitazione della lettura.
Esco, i muscoli sono diventati rigidi, le mie ossa sono di cemento.
Mi ci vogliono tredici passi per raggiungere mio zio. Trentaquattro secondi di pura tensione. Quattro parole.
«Gli restano tre mesi.»

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