I. Sapori

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È ormai febbraio inoltrato. Sono mesi che non ricevo lettere da Caronte. È da altrettanto tempo che Marco si rifiuta categoricamente di rivolgermi la parola anche se, nel suo piccolo, è diventato più protettivo nei miei riguardi. A scuola non sta andando particolarmente bene: un gruppo di ragazzi ha decretato che la mia sordità è un handicap che dovrebbe escludermi dalla società.
È una mattina come tante, questa: seduta sul mio anfratto di marciapiede, riempio di parole un piccolo quaderno. Da quando Caronte ha smesso di scrivermi, sento l'impellente bisogno di sfogarmi in qualche modo. Sentirsi soli quando vieni esclusa a priori da degli studenti non è una gioia, anzi. Vorrei solo chiedere a questi ragazzi se pensano che io l'abbia scelto, il diventar sorda. Almeno, se solo riuscissi a capire che cosa ha allontanato da me Marco quella maledetta mattina, io... ma è inutile arrovellarmi in dubbi che resteranno tali. La solitudine ha ripreso a divorarmi le viscere.
Finisco la sigaretta e raccolgo le mie cose, tremando sotto il cielo plumbeo ed il freddo di febbraio. Sento paia di occhi puntati su di me. Di fronte al cancello una piccola ressa di gente mi guarda come se mi avesse atteso, i miei passi si fanno sempre più incerti. Nella calca di persone riesco a scorgere il viso di Marco che fuma la sua Marlboro Light, senza prestare particolare attenzione a quel che sta accadendo.
Un ragazzo mi si avvicina, dal cerchio che si è formato intorno a me sento voci femminili ridere; dal mio canto, io non so chi sia lui.
«Piacere bambola, sono Matteo», dice allungando la mano verso di me con la speranza che io ricambi con una stretta. Ciò non accade.
«Alice. È così che ti chiami, vero?» chiede ed io mi guardo intorno sempre più spaventata.
«Perché non rispondi? Il gatto ti ha mangiato la lingua?» non riesco a distogliere lo sguardo da Matteo e dall'umiliazione che mi sta infliggendo. Mi posa una mano su una guancia ed io non ricordo più come ci si muove. Ti prego, fa che non stia accadendo per davvero. Matteo ghigna in un modo che non mi piace, sembra che tutto questo sia stato organizzato: altrimenti come mai ci sono così tante persone a guardare? Qualcuno ha già il cellulare in mano.
Mi sento morire dentro.
«Toglile le mani di dosso».
Sono sorpresa di sentire la voce di Marco farsi imponente e vicina. La mano di Matteo non si fa però remore: cerco di fermarla mentre risale verso il mio orecchio, ma con l'unica mano libera mi tiene così stretto il viso che la mia mandibola duole.
«Toglile. Le. Mani. Di. Dosso», scandisce Marco avvicinandosi, «O quello sordo sei tu?»
«Oh, e tu saresti?» la stretta di Matteo non si allenta, «Il figlio del professor Fontana, vero? Non sei degno del suo nome».
Perdo la testa, la perdo letteralmente. Ora sono stufa, davvero troppo stanca di star qui ferma a subire angherie che non merito. Non doveva permettersi di dire una cosa del genere su Marco. Raccogliendo tutta la forza che trovo nelle mie gambe tremanti, sferro un calcio sugli stinchi di Matteo. Improvvisamente, smetto di sentire da un orecchio.
«Non è così che mi smuovi, bambolina», ridacchia il ragazzo ed io sono sempre più infastidita. Sento lontana la sua voce, ciò vuol dire che sono davvero arrabbiata o che...
«Ridammelo!» Matteo tiene il mio apparecchio acustico fra le dita, senza aver cura di non romperlo. Io già temo i soldi che dovrò spendere per comprarne uno nuovo.
«Scusa, cos'è che hai detto? Non ti sento!» gli occhi mi si gonfiano di lacrime. Non piangere, non piangere, non piangere. Dov'è finito il Paese delle Meraviglie? Perché sono qui?
Abbasso lo sguardo mentre una lacrima percorre lentamente una mia guancia. Quando rialzo gli occhi, Matteo è disteso a terra ed ha il naso che sanguina. Di fronte a me c'è solo Marco che mi porge l'apparecchio acustico.
Vorrei abbracciarlo, ma mi batte sul tempo.

***

«Amore, cos'è successo? Stai bene tesoro?» la voce di mia madre arriva forte e chiara all'orecchio destro. Al sinistro non sento che un forte ronzio. Vorrei ricominciare a piangere. Annuisco piano ai miei genitori mentre consegno l'apparecchio rotto a mia madre.
«Mi dispiace» sussurro, posando lo sguardo sulle dita di Marco intrecciate alle mie. Mi chiedo da quanto tempo ci stiamo tenendo per mano; a pensarci lucidamente invece, vorrei che questo momento non finisse mai.
Mia mamma mi carezza i capelli con le sue mani morbide, mio padre non ho ancora il coraggio di guardarlo in volto.
«Sei tu che l'hai difesa?» la voce del mio genitore si rivolge a Marco, seduto composto sulla sedia in metallo.
«Sì. Non volevo creare disagi alla famiglia di Alice. Sono mortificato, signore». L'educazione di Marco mi sorprende. Pensavo fosse ancora preda della rabbia ed invece ora si mostra più calmo di me.
«Non hai niente di cui scusarti. Siamo noi a doverti ringraziare per aver difeso la nostra bambina», papà mi scompiglia i capelli ed io sorrido.
«Come ti chiami?» chiede mia madre.
«Marco».
Quando sente la sua risposta mi chiede con il linguaggio dei segni se è davvero quel Marco, ed io annuisco nuovamente.
«Dove sono i tuoi genitori, Marco?» chiede ancora mio padre, preoccupato di vedere solo due famiglie su tre chiamate a colloquio.
«Non li ho», asserisce stringendo forte la mia mano. Vorrei che mio padre non avesse mai fatto una domanda simile. Sento la solitudine di Marco diventare parte di me.
«Fontana, è pregato di entrare in presidenza». La voce della segretaria si espande per tutto il corridoio. Vedo i genitori di Matteo guardare con disprezzo la figura di Marco che si alza senza emettere suono, lasciando la mia mano a cui già manca la sua.
«Fermati, per favore. Lasciami entrare con te», mio padre gli posa un braccio sulle spalle magre, «lasciami ricambiare il favore». Marco non risponde verbalmente e si limita ad accettare il corso impetuoso di eventi che lo travolge. Resto sola con mia madre e la nostra conversazione si svolge in LIS (Lingua dei Segni Italiana).
"Ti stava tenendo per mano".
"Lo ha fatto per tutto il tempo", quando lo ammetto mia madre sorride e mi accarezza una guancia. Non diciamo più nulla. L'unico rumore in tutto il corridoio è il borbottio sommesso dei genitori di Matteo, ma lo sento solo perché sono alla mia destra. Il vuoto che sento dall'orecchio sinistro mi fa venire ancora le lacrime agli occhi. Cosa ho fatto di tanto cattivo per meritarmi questo?

Circa un quarto d'ora dopo le porte della presidenza si aprono e, questa volta, è la famiglia di Matteo a entrarvi. Mio padre e Marco sorridono, sulle labbra una serenità che mi incuriosisce.
«Cosa ha detto il preside?» chiede svelta mia madre, impaziente di sapere.
«Solo cose belle. Non c'è di cui preoccuparsi, il costo dell'apparecchio lo coprirà la famiglia di Matteo», dice mio padre scambiando uno sguardo d'intesa con Marco, «ora pensiamo solo a tornare a casa».
Marco mi si avvicina ed io leggo il suo labiale: "Posso?"
«Se puoi cosa?» chiedo titubante, la mia voce trema, i nostri corpi sono a una distanza molto ridotta e sento il suo calore.
La sua mano sfiora la mia e io arrossisco, guardando le nostre nocche che danzano in una carezza leggera. Lo prendo per mano e mi guardo intorno, ma dei miei genitori non c'è più traccia. Mio padre è furbo, ma non abbastanza.

Ci incamminiamo verso l'uscita della scuola. Giunti al cancello, di fronte al quale ore prima ho subito un'umiliazione da record, Marco si ferma.
«Io devo aspettare il pullman», dice forte, avvicinandosi sempre un po' a me. Apprezzo che usi un tono di voce adatto a farsi sentire meglio, soprattutto ora che il mio udito è ancora più ridotto di prima. Non riuscendo a percepire interamente il suono della mia voce, io invece parlo molto piano e tutto sommato è una fortuna quando dico cose che non dovrei.

Tra queste cose, c'è la condanna poetica che Prévert mi deve aver lanciato dalla tomba. Perché è qui, in questo viale ancora vestito d'inverno, che noi siamo in piedi l'uno di fronte l'altro, troppo vicini per ignorarci. Le sue labbra delineate sorridono impercettibilmente, sui polpastrelli delle dita ho la voglia fremente di toccare la barba rada che ha sul viso. Il freddo ci guarda e ammutolisce. Prévert torna ad essere la mia maledizione.
«I ragazzi che si amano si baciano in piedi», sussurro e dentro di me ho la speranza di non essere stata sentita. La bocca di Marco sembra felice quando i suoi angoli sono rivolti verso l'alto.
«Hai un ditale sulle labbra, Wendy».
Afferro il calore del suo fiato con le mie labbra. Il candore del nostro affetto spezza l'inverno e spazza via la neve. Le mani di Marco si perdono fra i miei capelli ed io soddisfo la voglia di toccarlo che avevo sulle dita. È un bacio diverso da quello precedente; il suo è un sapore che conosco, ma che non mi stancherò mai di incontrare.
Questo è il mio Inferno.
E Marco è il mio Caronte.

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