III. Postino degli Inferi

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Marco legge la mia storia in silenzio. Un leggero fremito scuote le sue labbra morbide. È la prima volta in tanti anni che trovo il coraggio di raccontare, di raccontarmi. Diventare sorda? Certamente mi ha ferito. Ho sofferto? Più di quanto avrei mai lontanamente meritato.

Non mi sono lasciata abbattere e no, non ho cambiato scuola. Condivido ancora l'aula con i miei aguzzini. Inutile dire che non ci rivolgiamo parola da quando ho perso l'udito. Sarà che, quel giorno, ho perso anche un pezzo di me. Un pezzo che ancora cerco senza mai trovarlo.

«Ti va di andare a fumare una sigaretta?» chiede Marco, colmando i miei vuoti in un solo sussurro.
Quando siamo sulle scale antincendio, il vento è indomabile e il freddo mi scuote. Mi stringo nel cardigan nero che indosso, avrei dovuto prendere la giacca prima di uscire, e per questo mi maledico.

Il cielo plumbeo ci fa da compagno nel nostro silenzio: io e Marco, dopotutto, siamo ancora come prima. Entrambi siamo costantemente sulla difensiva; baciarlo nuovamente è stato meraviglioso, ma non ci ha uniti. Forse, per questo, mi sono sentita un po' delusa, a tratti amareggiata.

Ho avuto aspettative troppo alte? O non sono abbastanza, per lui? Perché quando vedo i suoi occhi bruni evitare i miei, inevitabilmente, uno dei fili che ci ha legati si spezza. Non si sbilancia mai: evidentemente non sono la Wendy che cercava. Sono la Wendy adulta, che è tornata a casa lasciando Peter Pan solo con sé stesso.

Vorrei tornare indietro, senza avere la pretesa di sapere, godendomi quelle parole scritte che mi cullavano come dolci nenie.
Lascio cadere la sigaretta ormai finita. Non cerco lo sguardo di Marco. Semplicemente, passo dopo passo, mi allontano da lui, esattamente come, giorno dopo giorno, le distanze fra noi diventano invalicabili.

***

La lezione di matematica a cui sto partecipando prosciuga le mie ultime energie. Quando, all'annuncio di un imminente verifica, l'aula si riempie di borbottii, poso la testa sul banco: questa giornata mi ha stremata. Voglio solo tornare a casa, farmi un thé caldo e lasciarmi coccolare dalla morbidezza delle coperte.

La giornata scolastica è comunque giunta al termine e, quando finalmente la campanella suona, tiro un sospiro di sollievo. Mi alzo, preparando il mio zaino il più velocemente possibile. Marco mi aspetta - come fa tutti i giorni - fuori dal cancello, mentre io mentalmente mi preparo ad un altro pesante silenzio.

Una folla di studenti mi travolge, il mio già precario equilibrio viene meno. Quando sto per pregustare il dolore della caduta, un braccio frena la mia discesa verso le piastrelle del corridoio. Lieta di non essermi fatta male, sorrido, ma un sussurro giunge alle mie orecchie artificiali: «Dovresti fare più attenzione.»
La voce che non riconosco mi fa balzare lontano dallo sconosciuto che mi ha salvata da una caduta certa. Mascherando l'inquietudine, mi volto.
Matteo.

***

«Come mai fuggivi tanto rapidamente da scuola, oggi?» Chiede Matteo, interlocutore a cui non ho voglia né di rispondere, né di parlare.
«Solitamente sei una delle ultime ad uscire», continua, sorseggiando della Pepsi dalla sua lattina, «e di solito aspetti il pullman insieme a Marco. Come mai questo cambio di routine?»
Il suo monologo mi sta dando ai nervi. Come fa a sapere tutte queste cose di me, di lui?

Le sue mani prendono il libro che avevo posato sulle ginocchia. Non lascerò che, nuovamente, mi porti via qualcosa di prezioso.
«Ridammelo!»
«Il Barone Rampante, é uno dei pochi libri che ho letto», sospira, «ma almeno mi hai rivolto la parola.»
Lo guardo sorpresa, ma presto torno ad ignorarlo. I suoi capelli biondo cenere sembrano più scuri sotto questo cielo carico di pioggia; gli occhi castani di Matteo non smettono di scrutarmi. Mi sento in dovere di capire cosa voglia da me una persona capace di cattiverie gratuite.
«Perché mi assilli? Non ti é bastato come mi hai umiliata?»

"Scusa" é la parola che, con la gestualità del linguaggio LIS, Matteo mi rivolge. Sgrano gli occhi, stupita.
«Grazie.»
Sono imbarazzata, curiosa e sorpresa.
Per la prima volta lo guardo davvero negli occhi e quando lo faccio, sul fondo delle sue iridi scorgo una luce che non pensavo potesse appartenergli. Vorrei rubargliela e diventare ladra delle certezze negli occhi degli altri.
«Il mio fratellino è sordo a causa di farmaci ototossici. Questo risponde ad uno dei tuoi quesiti, vero?»

Quando sfilo una delle mie sigarette mentolate dal pacchetto, Matteo ne sfila una per sé: «Smettila di prendere le mie cose, soprattutto in questo modo arrogante e senza neanche chiedere!» Matteo ride brevemente, ma non risponde al mio sfogo nervoso ed io, imbarazzata da questo silenzio, gli rivolgo una domanda: «Di quali quesiti parli?»
«Di quelli che sicuramente ti sei appena fatta su di me», sospira, «se ti stai chiedendo se ho capito la conversazione con tua madre, la risposta è sì.»

Arrossisco visibilmente, sento il volto andare letteralmente in fiamme.
«È così strano avere una cotta per un ragazzo e parlarne con la propria madre?» Sdrammatizzo, ma il tremolio che mi scuote le mani è evidente.
«Direi di no», ride ancora ed io mi sento sempre più a disagio, «vuoi farmi la prossima domanda?»
Prendo un grande respiro: «Perché quel giorno mi hai presa di mira?»
La sigaretta si è ormai spenta, così approfitto della fiamma dell'accendino per nascondere il mio rossore.
«Marco. Aspettavo una sua reazione.»
«Una sua reazione? Tu conosci Marco? Come...?» La voce mi trema, il petto è in subbuglio. Le chiome degli alberi vengono frustate dal vento, io sento il cuore gemere.

«Calma, calma, calma, Alice. Una domanda per volta. Soprattutto, che ne dici di camminare, nel frattempo? Ho freddo seduto qui.»
Annuisco e poco dopo ci alziamo, dirigendoci verso il centro del paese.
«Conosco Marco, sono stato spesso a casa sua. Suo padre mi dava ripetizioni, quindi ho avuto occasione di conoscerlo meglio.»
Matteo mette le mani nelle tasche del suo paffuto cappotto, scuote la testa e riprende subito a parlare: «Tu poco fa hai detto che con tua madre hai parlato di una cotta. Non è così?»
Ancora una volta annuisco, questa conversazione non sembra essere tale, in quanto è solo Matteo a discorrere.
«C'è una sottile differenza, tra te e Marco. Tu sei cotta di lui», mi guarda e sorride, «Lui è innamorato di te.»
Il mio cuore non geme più: urla, anche ora che sono senza fiato.

«Eppure, non si direbbe», balbetto incerta, «Il nostro rapporto è molto difficile da decifrare. Qualcosa, inevitabilmente, ci separa. Oramai nemmeno parliamo più.»
Colpisco un sassolino con uno dei miei anfibi rigidi e opachi, cercando di non pensare al volto contrito di Marco. Sono impotente davanti al suo dolore e, anche se le avessi, le mie sole forze non sarebbero sufficienti per trascinarlo lontano dal baratro di sofferenza che è ormai la sua casa.
«Non pensarci troppo, suvvia. Ad ogni modo si è fatto tardi, devo proprio tornare a casa», Matteo si guarda intorno, il vento scuote i suoi capelli sottili, «Nella veste di Postino degli Inferi, non posso far altro che dirti di guardare dietro le macchinette al piano superiore, ancora meglio se domani alle dodici.»

Quando sto per replicare Matteo si è già dileguato, lasciandomi sulle labbra ancora troppe domande. Macchinette? Domani a mezzogiorno? Postino degli Inferi?
L'ennesima folata di vento mi fa realizzare quello che intendeva.
Caronte.

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