II. Bianco sporco

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Avevo quattordici anni.
Centosessantotto mesi, settecentotrenta settimane e cinquemilacentodieci giorni.
Quattordici anni per un adolescente vogliono dire molte cose: primo anno di superiori, di amicizie decisive per i prossimi cinque anni, di uscite un po’ più libere, implorando i propri genitori di poter rientrare a casa per le dieci di sera.
Eppure quattordici anni non sono poi molti. Non erano tanti nemmeno per il mio udito.

A quattordici anni non si è sazi della musica che ancora si deve ascoltare, dei concerti a cui andare con una combriccola di amici; ci si nutre delle voci affettuose dei propri genitori, degli spaventosi rumori in cucina quando sei a casa da solo.
Avevo quattordici anni e tanta fame di suoni.

Dopo i primi mesi passati a cercare le amicizie più vantaggiose nella mia classe, giunse la prima festa di compleanno. In soli quattro mesi dall’inizio della scuola, ero contenta di essere entrata nelle grazie di un gruppetto di ragazzi molto vivaci. Il classico gruppo formato da chi risponde male al professore, da chi fa battute per sei ore di fila o da chi si scambia i compiti durante le verifiche.

Ero ancora una comune ragazzina in cerca dell’approvazione altrui: tutto sommato, le cose andavano bene, anche se ciò significava dovermi omologare a qualcuno che non era simile a me.

É risaputo che quattordici anni è un’età fragile. L’età in cui ti accorgi che le ali stanno nascendo sulle tue scapole. La stessa età in cui temi che qualcuno le spezzi, queste meravigliose e giovani ali, ma non si è ancora pronti a nasconderle in un astuccio come faceva Leopardi.

Ad ogni modo, durante le vacanze natalizie giunse il compleanno di Nicola, il ragazzo più apprezzato dalla popolazione femminile della mia classe. Ero uscita poche volte con il gruppo di cui ormai mi consideravo parte. Questa non era altro che la mia occasione per dimostrare che, nonostante tutto, valeva la pena tenermi al loro fianco.

Così, per la prima volta nelle mie misere settecentotrenta settimane di vita, chiesi a mia madre di truccarmi.
Nel mio armadio riuscii anche a scovare un vestito carino, seppur anonimo. Lo indossai con entusiasmo, come una principessa indossa l'abito di nozze: ero pronta a sposarmi con il mondo e le sue creature.

Ripensare a quel giorno mette in evidenza la mia ingenuità: non era un platonico matrimonio, ma un funerale in cui la protagonista non potevo essere che io. Il giorno del mio matrimonio con la vita, la lasciai vedova all'altare.

Il beato candore della neve riuscì a calmare i fremiti delle mie mani. Ero ormai di fronte alla porta della casa di Nicola, con le guance rosse di fard ed un regalo fra le mani inguantate. Nel mio cuore ansante, sempre più tremiti lo facevano scalpitare. E palpitava, lui, quello stupido cuore in subbuglio, eccome se palpitava!

Era inizio gennaio e non aveva mai - e mai più, dopo - nevicato tanto nel mio piccolo paese di provincia. La neve mi rendeva felice, il mondo si vestiva di bianca e simbolica innocenza. La stessa che io, ancora troppo bambina, tenevo stretta a me come un mantello. Oggi però ho una certezza: mi hanno privata anche di quella.

I genitori di Nicola erano in vacanza, ma erano anche fin troppo fiduciosi nei riguardi del figlio. Marika, una delle ragazze, venne ad aprirmi, senza che il festeggiato si degnasse di accogliermi. Non vi badai e, con uno smagliante sorriso, raggiunsi i miei amici.

Eppure, qualcosa sui loro volti mi turbava. Al mio tragicomico ingresso, le loro espressioni mutarono impercettibilmente. Fu un cambiamento così piccolo, che ingoiai anche questo rospo. Nessuno fra loro era contento di vedermi. Nessuno.

I ragazzi parlavano tra loro, spettegolando ora su una poveretta costretta a portare l'apparecchio, poi su chi fra loro avesse le scarpe più costose. Per quanto questi argomenti mi infastidissero, nessuno di loro diede alla Alice quattordicenne la possibilità di esprimersi a riguardo. Mi resero, però, una funesta protagonista.

Ebbene sì: portavo l'apparecchio. E, come se non bastasse, le scarpe che indossavo erano un paio di ballerine comprate al mercato. Sì, il mercato del sabato. Sì, me le aveva comprate mamma. Sì, le adoravo. Mai, per nulla al mondo, mi sarei vergognata della mia umiltà.

Umiliata, ma non ancora sfinita, decisi di seguirli nei loro "giochi": chi faceva più cerchi col fumo della sigaretta, chi riusciva a trangugiare un bicchiere di birra in pochi secondi. Nulla del loro mondo mi apparteneva, neanche lontanamente. Falliti i tentativi di gioco, mi accinsi ad un congedo rapido, cercando di mettere fine all'umiliazione che stavo consapevolmente subendo.

Quanto potevo essere sciocca? Ero davvero convinta che mi avrebbero lasciata andare con tanta facilità?
Per potermene andare ero costretta a partecipare ad almeno un altro dei loro giochi, ma vi era una sola condizione: vincere. E tutto questo, solo per sentirmi qualcuno, per sentirmi parte di qualcosa. Non solo ero ridicola, nel mio vestito ben inamidato dall'appretto di mamma, ma iniziavo a sentirmi patetica come mai nella mia vita. Ero davvero giunta fin qui? E come tornare indietro?

Inutili furono anche le mie domande, perché ormai a quel punto era troppo tardi per tirarsi indietro. Diversa da loro? Assolutamente. Codarda? Mai.
Il gioco era un'assurdità: lanciare un petardo abbastanza in fretta da farlo scoppiare a mezz'aria. Ognuno aveva a disposizione tre petardi - avanzi di Capodanno, a detta di Nicola - e avrebbe vinto chi sarebbe riuscito a farlo scoppiare senza che l'acqua della neve bagnasse la polvere da sparo. Se il petardo mi fosse anche solo accidentalmente caduto, sarei stata ulteriormente schernita.

Il gioco iniziò senza troppe attese. Guardai gli altri prendere rapida dimestichezza con gli accendini e gli esplosivi. Io invece ero lì, immobile, con le mie bellissime ballerine ormai bagnate di neve, a tremare di freddo. Le mani erano come di cartone e l'inizio degli scoppiettii non fu d'aiuto. Guardai il ragazzo distante qualche metro da me, Nicola. Quando vide le mie mani al caldo nelle tasche del giubbotto, rise. Rise di una risata che non avevo mai sentito. Asprezza, forse cattiveria. Le vibrazioni delle sue risa erano come violini scordati. La sua mano si mosse nella mia direzione.

Poi lo scoppio. Il mio grido. La paura. La caduta in mezzo alla neve. I volti preoccupati dei miei compagni, uno di loro che si apprestava a chiamare un'ambulanza.
Tutto mi faceva male: la testa, il collo, le orecchie. Tutto intorno a me vorticava e, più cercavo di rialzarmi, meno sentivo le gambe reggermi.
Avevo perso buona parte dell'equilibrio: psichico o fisico, poi, che importanza ha?
Guardai la neve, cercando un appiglio in essa per riuscire a stare in piedi.
Lei, così fredda ma accogliente. Lei, così casa, di quel bianco puro irriproducibile.
Bianco sporco del mio sangue.

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