V. Primavera

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Ultimamente mi ritrovo sempre più spesso a camminare, sola, davanti ai luoghi in cui sono stata con Marco. È passata una settimana da quando ho ricevuto le sue lettere; da quel giorno, non faccio altro che aspettare lo scorrere del tempo. La mia vita in questo periodo è diventata atroce attesa. Sono rimaste tre buste da aprire: sul retro di ognuna vi è scritta una data da rispettare e quella più imminente è il 21 di marzo. Il primo giorno di primavera. La Giornata Mondiale della Poesia.

Il mio cuore deve ancora metabolizzare le parole della precedente lettera e no, non mi riferisco al suo disturbo, ma a tutta la dolcezza che racchiude in ogni frase. Una tenerezza così sottile, delicata, di cui solo lui è capace. Lo stomaco cerca di digerire il pasto di emozioni che ha ricevuto, ma a distanza di giorni ancora non ci riesce. Ho bisogno di parlarne con qualcuno, di confrontarmi con un punto di vista esterno ai miei sentimenti.

«Papà, hai tempo per una chiacchierata?» Chiedo a mio padre, sbucando appena dalla porta del salotto. Abbassa gli occhiali da vista sul naso per guardarmi meglio, sorride, ripiega il giornale che era intento a leggere e si alza.
«McDonald's o Burger King?»
«Mamma ci ucciderà se lo scopre, lo sai, vero?»
«Basterà non farglielo scoprire», ride, «Va' a metterti le scarpe, su!»

Fuori dal finestrino scorrono gli stessi paesaggi che conosco a memoria, adombrati dalla sera che arriva lentamente. Le giornate si allungano giorno dopo giorno e questo rende ancora più difficile viverle. Preferivo il buio invernale, quello in cui potevo nascondermi e passare inosservata. La primavera invece torna con i suoi germogli sui rami glabri degli alberi, con quel sole che scioglie il ghiaccio da ogni cosa, con la sua luce pronta a illuminare ogni petalo di fiore. L'unico lume che continuo a perdere, però, è quello della ragione.

Uno dei miei pensieri scorre a mamma che, mentre noi mangiamo, assiste persone in ospedale. Non è né medica né chirurga ma una semplice infermiera: le sue mani sfiorano pelli, alleviano mali, carezzano dolori. Vorrei potesse curarmi con il suo solo tocco, e magari curare anche Marco, liberarlo dallo strazio che lo tormenta.

Accetto Marco per quello che è, nei pregi e nei difetti, nelle poche gioie e nei numerosi dolori che ha affrontato; semplicemente, se solo ci fosse un modo, vorrei poter alleviare i pensieri che lo portano alle sue crisi, cancellare.

«Cosa ti turba, bambina mia?» Mi chiede papà mentre osservo il mio cheeseburger. Le parole di Marco tornano a rimbombare nella mia mente:"Riuscirò a mangiare un hamburger senza doverne suddividere gli ingredienti?". Le mie mani allora decidono di muoversi da sole. Tirano via il pane, i cetriolini affogati nel ketchup, la carne, il formaggio e nuovamente il pane. Gli occhi di mio padre seguono attenti ogni mio movimento, io non so come giustificarmi. Sfilo una salviettina umidificata dalla borsa, mi pulisco le dita e poi il tavolo. Alzo lo sguardo, incontro l'espressione interrogativa del mio amato genitore.

Nonostante tutto, non fa domande e addenta il suo panino come se nulla fosse accaduto.
Simone è il nome di mio padre, l'uomo di cui porto il cognome e con cui condivido non solo i boccoli ribelli, ma anche l'animo pacato.
Simone e Alice Vitali. Se potessi guardarci da un punto di vista esterno, sono certa che scorgerei una bolla avvolgerci. Questa è la qualità migliore di papà: riuscire a portarmi lontano solo standomi vicino.

«Marco soffre di disturbo ossessivo-compulsivo», affermo iniziando a mangiare il mio cheeseburger vivisezionato. Se questo panino potesse parlare molto probabilmente mi ricoprirebbe di ingiurie.
«Quindi?»
«Quindi volevo provare a mettermi nei suoi panni.»
«Ha funzionato?»
Scuoto la testa in segno di diniego: «Circa. Posso scomporre il cibo e cercare di ripetere le sua ritualità, ma non mi sentirò mai come si sente lui.»
Papà poggia la sua mano sporca di briciole sulla mia e, per un secondo, sento il fastidio dello sporco sulla pelle.
«Lo vedi come un problema fra di voi?» Chiede con garbo.
«Lui accetta la mia ipoacusia, io accetto il suo malessere. Vorrei solo...»
I miei occhi si riempiono di lacrime mentre papà conclude la frase al posto mio: «Che non stesse così male. È normale, piccola mia. Quando si vuole davvero tanto bene a qualcuno si soffre a vederlo soffrire», prende un sorso della sua bibita, «però il dolore, quando lo si regge in due, pesa molto meno e fa molto meno male. Sei disposta a prenderne una parte?»
La mia bocca non esita a dare risposta affermativa.
«Allora metticela tutta, bambina mia.»

***

Oggi il sole brilla e illumina tutto ciò che si posa sotto il suo caldo sguardo. I suoi tiepidi e timidi raggi si fanno accompagnare da leggeri soffi di una brezza che già odora di polline. Oggi è il primo giorno di primavera.
Sono seduta in un bar in piazza, poco distante dalla chiesa in cui venne celebrato il funerale del padre di Marco in quel giorno funesto. Sola a questo tavolino, attendo l'arrivo della mia ordinazione mentre fumo una sigaretta. Tra le dita rigiro la busta su cui è riportata la data di oggi: lentamente ne estraggo la lettera al suo interno.

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.
(Alda Merini, Sono nata il ventuno a primavera)

Oggi è una giornata che richiama tante cose: il compleanno di Alda Merini, nonché Giornata Mondiale della Poesia. Oggi è il primo giorno di primavera e, nella speranza di nuovi germogli, io aspetto sboccino i tuoi sorrisi, cara Wendy.
Nella lettera precedente ho iniziato a svelare ai tuoi occhi una piccola parte di me. In questa, ti mostrerò ancora il mio riflesso sui tanti cocci infranti della mia vita, ma con rinnovata fiducia.
Anche se non potrai percepire il tremore delle mie mani che senza sosta ti scrivono, voglio solo che tu sappia che la paura c'è ancora tutta. Bada bene, non è paura di te, del tuo giudizio: è paura di me e dell'atto di raccontarmi senza maschere.

Sono nato. D'altronde, così accade la vita. Nascere, come per ogni essere umano, è stata la mia prima azione. La seconda è stata piangere, strillare contro questo mondo cane; anch'essa resta comunque la prima manifestazione di sentimento.
Il passo successivo è stato invece quello più impegnativo: crescere.
Come avrai intuito, prima di arrivare ad oggi, nella mia vita ci sono state diverse tappe, forse troppe.

Ero un bambino felice, Wendy. Riesci ad immaginarmi sereno anche se di me conosci solo sguardi mesti e alle volte tetri? Adoravo costruire torri di Lego e poi distruggerle, il fango era il mio migliore amico e il bacio della buonanotte era il mio momento preferito di ogni giornata. Quando avevo circa otto anni, però, in casa mia è arrivata una sconosciuta che non capivo e mal sopportavo: la leucemia.

Leucemia promielotica acuta. Tre parole. Venticinque lettere. E tutte di puro dolore. Si è portata via la donna della mia vita in così breve tempo che mi è difficile ricordarla distesa in un letto d'ospedale. Si chiamava Beatrice e aveva solo trentasei anni quando lasciò vuote le nostre vite. Aveva lunghi capelli biondi che spesso teneva raccolti in una coda alta, sul viso una spruzzata di lentiggini che me la facevano sembrare molto più giovane della sua età. I suoi occhi erano dello stesso colore delle castagne che mi portava a comprare a novembre, quando la leggera nebbia lombarda iniziava a fare capolino, lasciandomi sempre i capelli umidi. Due occhi grandi, Wendy, grandi e pieni d'amore per la vita. Quando sono solo in casa e c'è sufficiente silenzio mi sembra quasi di sentirla ancora muoversi tra quelle mura: nelle orecchie riecheggia il suono dei suoi passi leggeri, eppure così sbadati da farla inciampare almeno una volta al giorno. Era una persona maldestra e per questo buffa, mia madre.

La sua perdita è stata incommensurabile a nessun altro dolore per me e mio padre. Lui al momento è quello fortunato: ora sarà eternamente accanto alla sua Bice e, per questo, un po' lo invidio. Sono passati più di dieci anni da quel giorno. Oggi sono undici primavere distante da lei, ma non solo. Sono ormai distante da loro.
Tanta è, alle volte, la tentazione di raggiungerli, di prendere il primo treno di sola andata verso il cielo. E quando so che sto per mollare, per lasciarmi finalmente andare, ecco che dietro le mie palpebre compari tu, che sei la primavera di ogni sorriso, la primavera di ogni giorno.

Sei il solo fiore capace di far sbocciare affetto in mezzo ai rovi delle mie paure. Ed è per questo che ci tengo a ringraziarti oggi, giorno evocativo per me: grazie di ogni parola, di ogni bacio, di ogni briciolo di tempo speso a leggere le parole di questo povero pazzo.
Grazie dell'amore, Wendy.

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