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A mio padre devo la vita, al mio maestro una vita che vale la pena di essere vissuta.
Filippo, mio padre, mi aveva concesso tutto e se avesse potuto mi avrebbe donato pure il suo ultimo respiro, in quanto ad Aristotele, dovevo a lui conoscenze, intelletto, sentimento e paure.
Mi ripetevo questo quel giorno, gli occhi puntati al soffitto. Avevo quattordici anni, poco più di un bambino, anche se avevo l'aria di un uomo che di strada nella vita ne aveva fatta.
Ero molto più intelligente di qualsiasi altro ragazzo della mia età, perfino di alcuni signorotti del tempo che, in ghingheri, speravano di accaparrarsi un posto al fianco di mio padre, re Filippo.
Mi scostai una ciocca madida di sudore dalla fronte, alla mente la notte passata senza chiudere occhio, gli incubi improvvisi, gli spasmi violenti.
Non avevo più voglia di pensare, la nausea improvvisa mi attanagliava lo stomaco.
Aristotele.
Mi aspettava.
Mi concessi qualche altro secondo per fissare il soffitto, poi abbandonai il tepore del mio letto.
Chissà quale punizione corporale mi avrebbe riservato il maestro; speravo in un duello con Bagoa, un cortigiano persiano sul quale avevo puntato lo sguardo pochi giorni prima.
Era giunto al regno da qualche tempo, riuscito a fuggire da re Dario. Era stato Nabarzane a condurlo da me: ecco il tuo servo, aveva detto.
Ed eccolo.
I suoi capelli neri lunghi fino alle spalle gli attribuivano un'aria da duro, anche se in realtà sapevo che era tutt'altro: un pezzo di pane alla corte del Satrapo Besso.
Il sorriso bianco e bellissimo risaltava il suo sangue orientale.
Lo avevo da subito voluto per me.
Perché farsi sfuggire una simile opportunità? Dopotutto, avevo pochi servi personali. Nel corso della mia vita, ne avevo avuti poco più di cinque, tutti morti o scappati.
Non avrei permesso che Bagoa scappasse, dovevo prima insegnargli la mia lingua e cancellare da lui ogni traccia di sangue barbaro, persiano.
Guardai la mia immagine riflessa su uno specchio d'acqua, un secchio lasciato da qualche servo affinché potessi sciacquarmi mani e viso.
Sorrisi per quella gentilezza.
"Bagoa" chiamai a gran voce.
Piccoli passi furtivi risuonarono lungo il corridoio.
Era sveglio.
Non dormiva, mai.
"Mio signore?" domandò trafelato, i piedi puntati per terra, tanto simili a steli di fiori, gracili e affusolati.
Gli sorrisi impercettibilmente.
"Il maestro Aristotele è già arrivato?" chiesi con voce ferma, le mani gocciolanti, immerse nell'acqua del secchio.
Bagoa scosse la testa e io tirai un sospiro di sollievo.
Niente duelli.
Pensandoci, però, sapevo che non mi sarebbe dispiaciuto.
"Vuoi che ti prepari un bagno?" proseguì con le domande, la voce flebile ridotta a poco più di un sussurro.
Ecco, questo era Bagoa: un giovane più grande di me di qualche anno, due o forse tre, diligente, servente, per nulla negligente.
"Non sarà necessario" risposi di rimando, scuotendo la testa. Dopodiché, lo congedai, gli occhi puntati sulla sua schiena ancora da fanciullo.
Mi ripulii gli occhi pieni di sonno e mi apprestai a scendere al piano di sotto, prima che Aristotele arrivasse.
Il giorno prima, l'avevo sentito discutere con mio padre, a proposito di un giovane nobile con il quale il regno di Macedonia avrebbe stretto un rapporto militare e politico: Amintore.
Sapevo poco di costui, ma non m'importava.
Suo figlio, di cui non sapevo neppure il nome, sarebbe arrivato quello stesso giorno e avrebbe abitato nel palazzo di mio padre presso il regno di Macedonia, affinché in età matura potesse entrare nell'esercito e prestare servizio militare.
Odiavo il pensiero che di lì in avanti avrebbe frequentato le mie stesse lezioni.
Odiavo condividere Aristotele.
Il suo sapere doveva essere solo mio.
Mi tirai i capelli all'indietro, sfiorandomi la nuca sudata e ritraendo i palmi disgustato.
Avrei fatto meglio a richiamare indietro Bagoa per un bagno, altrimenti Aristotele si sarebbe rifiutato di rivolgermi la parola.

Le erbe e gli unguenti erano disposti ordinatamente lungo il tavolo di legno, in fila come soldati schierati in battaglia.
Sfiorai un bisturi con l'indice, debolmente, quasi fosse un oggetto prezioso.
Apprezzavo la medicina più di Aristotele stesso e coltivavo per essa un rispetto simile a quello che un sacerdote proverebbe per il suo dio.
Lo scintillante strumento scivolava sotto il mio indice, luminoso come un raggio di sole.
Chissà se Aristotele l'aveva messo lì per dissezionare qualcosa, magari la lepre che il giorno prima avevo catturato.
Un rumore impercettibile alle mie spalle mi costrinse a voltarmi: mio padre era in piedi dinanzi all'uscio.
Mi sorrise come era solito fare e io risposi con un inchino.
"Alessandro" pronunciò il mio nome con enfasi, quasi volesse imprimerlo nel tempo e nella memoria.
"Padre, signore" risposi, gli occhi puntati al pavimento, in segno di dovuto rispetto al re del regno di Macedonia.
Lui mi sfiorò il capo con il palmo di una mano e mi invitò a guardarlo.
"Aristotele tarda ad arrivare" mi fece notare allarmato.
Aristotele era sempre puntuale.
Deglutii a fatica, pur sapendo che il maestro non correva alcun pericolo.
Non aveva nemici, godeva di buona salute e aveva una memoria di ferro.
"Sono sicuro che sia in procinto di arrivare" informai mio padre per alleviare la sua tensione.
Lui sorrise mestamente, incerto se credere alle mie parole.
"Chiama Bagoa e digli di preparare la colazione in tavola: abbiamo ospiti" mi ordinò poi, dandomi le spalle.
Osservai la sua schiena possente, le mani serrate e il passo sicuro.
Il regno di Macedonia aveva un vero re.

Amantes AmentesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora