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Una mano gentile mi scivolò sulla spalla.
Schiusi un occhio, alla ricerca del suo proprietario e mi ritrovai davanti Bagoa.
Mi meravigliai nel vederlo così vicino, perché solitamente manteneva una distanza costante da me, intimorito dal mio potere.
Chiamai il suo nome alle prime luci dell'alba, la voce ancora roca e il volto stropicciato.
Il servo mi sorrise, le gote arrossate e i capelli pettinati con cura.
"Mio signore" disse, fissandomi intensamente.
Perché svegliarmi così d'improvviso?
"Cosa succede?" chiesi incerto, scrutando la stanza alla ricerca di qualcosa che non quadrasse.
Nemici da Oriente? L'ira di Aristotele? O forse un cavallo era fuggito?
Ma non vedevo frecce né sentivo la voce impetuosa del maestro né i lamenti dello stalliere.
E in quel momento capii: Bagoa voleva concedersi a me.
Lo capii dal modo gentile con cui mi sfiorava il corpo, dallo sguardo seducente che mi riservava, dall'acconciatura più bella del solito.
Avevo i muscoli della schiena tesi come corde e la gola era secca e mi bruciava.
Non volevo ferire Bagoa.
"Preparami un bagno" gli ordinai, sperando accogliesse il mio ordine e che si apprestasse ad uscire in fretta: non volevo vedere il suo sguardo spezzato dalla delusione.
"Sì, mio signore" obbedì, lasciando in fretta la stanza.
Mi stropicciai gli occhi, ancora assonnato, mi misi a sedere sul letto e poi, come avevo fatto il giorno prima, mi sciacquai mani e viso nel secchio, dove l'acqua adesso era pulita.
Avrei fatto a meno di incrociarlo nei corridoi e non gli avrei più chiesto di prepararmi un bagno per quel giorno.
D'altro canto, sapevo che anche lui avrebbe cercato di evitarmi.
Pochi minuti più tardi, ero in cammino per l'addestramento, il pensiero di Bagoa lontano.

Mio padre teneva particolarmente all'arte militare e sperava che un giorno potessi entrare a far parte dell'esercito, in modo da essere un degno erede, e che mi affermassi per la mia bravura in tutto il regno di Macedonia e nei paesi limitrofi.
E così, all'età di sette anni, avevo cominciato il mio addestramento militare, atto a rendermi un vero soldato macedone.
Ora, mi rigiravo la spada tra le mani, sfiorandone la punta acuminata con la quale avevo infilato come uno spiedo molti animali, ma che non aveva mai incontrato carne umana.
Avevo poco tempo per imparare alla perfezione il combattimento e poca voglia di farlo.
Quel mattino, sotto lo sguardo vigile del capo degli Eteri, i compagni del re, avrei combattuto contro Efestione.
Aveva gli occhi scavati, come se non avesse dormito per tutta la notte, cosa probabilmente vera, la mascella contratta e uno sguardo duro, ma un sorriso dolce sul volto.
Mi salutò con un cenno del capo che io ignorai apertamente, fingendo di non averlo notato.
"Lancia o spada?" chiese il generale degli Etèri con fare scocciato e tono autoritario.
Aristotele mi aveva insegnato ad utilizzare la ragione, perché solo grazie alla razionalità avrei compiuto giuste scelte. Il cuore serviva poco in questo.
Ciò non voleva dire che non servisse.
La lancia non si rivelava utile poi a molto: avrei semplicemente faticato a colpire il mio avversario ad una distanza così ravvicinata, al contrario con la spada potevo colpirlo con più semplicità.
Osservai Efestione che teneva a fatica le palpebre aperte e provai un senso di angoscia: non potevo combattere con lui, il solo pensiero di colpirlo mi faceva rabbrividire.
E se un colpo fosse andato a segno?
Improvvisamente, lo ricordai con indosso un'armatura scintillante e l'elmo a coprirgli il volto e mi promisi che non avrei mai combattuto contro di lui.
Lo volevo al mio fianco.

Mi rifiutai di combattere contro Efestione con la scusa che fosse di una stazza troppo piccola rispetto alla mia e me la cavai dopo qualche lamentela da parte del generale.
Così, mi ero limitato a cacciare animali di piccola e media grandezza, promettendo al generale che se avesse trovato un degno soldato avrei combattuto contro di lui, ma che mi sarei rifiutato di battermi con un simile soldato, se poteva essere definito tale, come Efestione, gracile e debole.
Lo dissi con un tono che non ammetteva repliche e il generale parve capire.
Dopo l'addestramento militare, io ed Efestione ci ritrovammo ad una lezione di filosofia con Aristotele, che si tenne in un sotterraneo del palazzo.
Non incrociai Bagoa per tutto il giorno e fu un bene per entrambi.
Sapevo, però, che presto o tardi mio padre mi avrebbe chiesto di dilettarmi con una fanciulla o peggio ancora di prender moglie.
Al solo pensiero mi rabbuiavo.
Sapevo di non essere pronto e forse non lo sarei mai stato. Tanto valeva concedermi a Bagoa, dunque.
Interruppi quel flusso di coscienza, giusto nel momento in cui Aristotele si apprestava a concludere la lezione, complimentandosi con Efestione per una domanda che lui definì 'giusta e razionale', poi mi incamminai lungo il corridoio, seguendo a rotta il mio compagno di lezioni.
Avevo voglia di vedere dove avrebbe trascorso il resto della mattina e mi meravigliai nel vedere che puntò a est, verso i boschi.
Non sapevo dove i suoi passi l'avrebbero condotto, confidavo che non scoprisse che lo stessi seguendo.
Lo vidi impugnare l'arco, lo sguardo fisso ad un punto lontano, probabilmente al tronco di un albero, le spalle tese e i muscoli delle braccia rilassati, come allenati da tutta una vita allo scoccare frecce.
Non tirava un soffio di vento e l'aria era ferma, l'ideale per allenarsi al tiro con l'arco.
Una prima freccia andò a segno, conficcandosi in un tronco vicino, così una seconda, come una terza e una quarta.
La quinta freccia andò a conficcarsi poco lontano dalle altre, ma più in basso, verso un nido di uccelli.
Ammirai la semplicità con la quale Efestione scoccava le frecce, indirizzandole sempre nel punto giusto, sempre nel modo giusto.
Avrei pagato per avere un briciolo della sua precisone.
Altre tre fecce fendettero l'aria l'una dopo l'altra, finendo contro un secondo albero, distante di qualche metro dal primo.
Vidi Efestione sorridere compiaciuto per l'addestramento ben riuscito e riposare le frecce nella faretra sulla spalla con fare esperto.
Amavo la semplicità dei suoi movimenti.
Lo vidi inspirare l'aria a pieni polmoni, prima di incamminarsi verso il palazzo.
Non feci in tempo a seguirlo, che era già scomparso dalla mia vista.

"Efestione" lo chiamai, la voce alta risuonava nelle stanze del palazzo.
Urlai il suo nome più volte, confidando in una sua risposta, che però non arrivò.
Non sapevo dove fosse finito.
L'avevo visto varcare le porte del castello, prima di vederlo sparire attraverso i corridoi intricati che, come un labirinto, sembravano averlo inghiottito.
Volevo parlare con quel giovane tredicenne, così misterioso e taciturno.
Volevo sapere di più su di lui.
Era diventato un bravo arciere o v'era nato?
Sembrava lo fosse da un'intera vita.
Lo trovai molto tempo dopo, poco lontano dallo studio di re Filippo, intento a leggere una copia dell'Iliade.
"Paride" lo chiamai scherzosamente, allungando una mano verso di lui, come per strappargli l'opera dalle mani.
Lui mi guardò confuso, poi capì il senso di quell'appellativo.
"Principe Alessandro" si inchinò rispettoso e io storsi il naso.
"Solo Alessandro, nessun principe, Efestione" lo canzonai, cercando di assumere un tono dolce.
Lui accennò un debole sorriso e ritornò alla lettura dell'epopea.
Lo fissai per qualche altro secondo, costringendolo a sollevare lo sguardo.
"Posso parlarti?" gli chiesi quindi, non appena il suo sguardo incrociò il mio.
Lui annuì debolmente, contraendo la mascella nervoso.
Non sapevo cosa gli avrei detto, sapevo solo che sentivo un bisogno irrefrenabile di parlargli.
Mi sarei inventato qualcosa: la mia fantasia non conosceva limiti.

Raggiungemmo il cortile del palazzo, dove l'erba fresca sembrava appena tagliata e dove la brina dell'inverno lasciava spazio ai primi boccioli.
Efestione mi osservava sorpreso per il fatto che dovessi parlargli ed io sapevo che il motivo della sua sorpresa e della sua eccitazione non era causato dal fatto che dovesse parlare proprio con me, ma dal fatto che dovesse parlare con il principe qual ero.
Irrigidii la mascella seccato e meditai sul fatto che forse non era cosa giusta intrattenere una conversazione con lui e che avrei fatto meglio a tenere a freno la lingua.
Improvvisamente, quel pensiero mi aveva reso l'animo nero: non volevo più parlargli.
Efestione rispettava la mia persona, ma più di questa il mio titolo.
Prima di lui, molti altri avevano avuto lo stesso pensiero di me, convinti che fosse un privilegio rivolgermi la parola, e di certo non sto qui a biasimarli, ma pensavo che Efestione sarebbe stato l'eccezione: parlare con Alessandro, non con il Principe del regno di Macedonia.
Era questo quello che volevo.
Mossi un piede velocemente, scacciando un ciottolo vicino e tornai a guardare il mio compagno.
"Dunque, principe?" mi chiese lui, incontrando il mio sguardo.
L'aveva fatto, di nuovo.
"Non è forse vero che bisogna obbedire agli ordini di un principe?" domandai con fare autoritario.
Lui mi osservò stranito, non comprendendo nulla di quel che dicevo.
"Ti avevo detto di non chiamarmi principe, ma tu l'hai fatto lo stesso".
A quel punto capì e accennò un sorriso divertito.
"Mi dispiace, Alessandro" disse poi, sempre lo stesso sorriso sulle labbra che non intendevo far scomparire.
I suoi occhi penetranti ritornarono a fissarmi e io ricambiai lo sguardo, mordendomi un labbro.
Adoravo il modo in cui pronunciava il mio nome.
Alessandro.
Era così dolce.
Accennai un mezzo sorriso e incrociai il suo sguardo.
"Perdonato" dissi.
Vidi il suo pomo d'Adamo che saliva su e giù e sentii l'impulso di carezzarlo con un dito, ma scacciai in fretta quel pensiero.
"Chi ti ha insegnato ad usare l'arco?" gli chiesi, distogliendo lo sguardo dall'incavo del suo collo, dove la pelle delicata copriva le ossa delle clavicole.
Efestione si inumidì le labbra prima di rispondermi.
"L'arco? Mio nonno" rispose dopo qualche minuto.
Ebbi la tentazione di confessargli che l'avevo spiato, che non avrei mai voluto staccare gli occhi dai muscoli delle sue braccia tesi per lo sforzo, dalla sua espressione impassibile e dal profilo delle sue labbra, le avevo osservate a lungo quelle, ma rimasi in silenzio, come pietrificato.
"C'è altro che vuoi sapere, Alessandro?" mi chiese e mi sentii ferito nel profondo.
Non aveva forse voglia di parlare con me?
Accennai un sorriso falso e scossi la testa.
Lo vidi voltarsi e con passo felpato raggiungere le sue stanze. Irrigidii la mascella: il mio cuore sarebbe diventato di pietra, perché era appena stato infranto.

Amantes AmentesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora