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Ottobre del 331 a.C., Jabal Maqlub, a est di Mosul (Iraq).
Alzai gli occhi verso il cielo, dove la Luna aveva lasciato posto al Sole che adesso splendeva alto e illuminava le tende dell'accampamento già vivo e in pieno fermento, e rammentai il sacrificio compiuto quella stessa notte, sperando che gli dei udissero ancora una volta le mie preghiere.
Ritornai dentro la tenda e trovai Efestione già sveglio ed intento a lucidare le sue armi; mi accomodai al suo fianco e sollevai il suo viso.
"Amore mio", mormorai ad un soffio dalle sue gemelle che, pur desiderandolo, non osai sfiorare.
"Ieri notte la Luna nel cielo era colore rosso fuoco e ho pensato fosse un messaggio inviatomi dagli dei dall'alto della loro dimora sull'Olimpo. Raduniamo gli uomini e ricompattiamo l'esercito, perché oggi combatteremo contro Dario e, se i numi mi consentiranno tale onore, lo vinceremo sul campo di battaglia."
Efestione mi ascoltò senza fare domande con un'espressione che non lasciava trasparire cosa pensasse di quanto dicevo. Quando smisi di parlare, prese le mie mani e ne baciò il dorso.
"Mio Re, che sia come comandi. Raccogliamo i tuoi soldati e stabiliamo come procedere", rispose, prima di mettersi in piedi ed invitarmi a fare lo stesso.
Stavolta non mi trattenni e lo baciai a lungo, chiudendo gli occhi come a voler cristallizzare l'ingiusto scorrere del tempo.

Radunai un'εκκλησία (ekklēsía, assemblea), formata dai miei uomini più fidati per stabilire quale percorso intraprendere e come raggiungere la valle in cui si sarebbe svolta la battaglia.
"Sfidare i Persiani in una terra che conoscono, per di più in una valle che non ci permetterebbe in alcun modo di farli arretrare, mi sembra un'assurda follia. E non dire che ci riusciremo solo grazie all'appoggio, per di più nemmeno assicurato, degli dei. È una battaglia tra soldati, non tra forze divine, Alessandro.
Tutto questo è assurdo, più che assurdo.", commentò Clito il Nero, premendo con l'indice la punta del suo pugnale e facendo così fluire un rivolo di sangue dal dito che si affrettò a leccare via.
"Quasi non ti riconosco, Clito. Sottovaluti forse i nostri soldati, i tuoi compagni? Sottovaluti te stesso?", chiosai mettendolo a tacere.
Mi avvicinai pericolosamente al suo viso e lo scrutai con lo sguardo, alla ricerca di quegli occhi che conoscevo da tutta una vita e che non mi avevano mai tradito.
"Rispondi, Clito".
Resse il mio sguardo e, anzi, accennò pure quella che interpretai come una smorfia si sfida.
"Non scuotere il tuo povero animo con pensieri inutili, Alessandro, non sia mai che io sottovaluti gli uomini che stanno al tuo fianco e che con spade o a mani nude hanno scagliato vite magnanime nell'Ade", rispose, distogliendo lo sguardo per un solo istante.
"E allora ti conviene tacere e combattere al mio fianco anche oggi" sfiorai con l'indice la sottile cicatrice che si diramava lungo il suo collo e che si disperdeva lungo il petto, adesso coperto dalla tunica militare.
"Non mi rifiuterei di combattere per te nemmeno se sapessi che farlo mi condurrebbe a morte certa", sentenziò il soldato con voce ferma.
Gli misi una mano sulla spalla, prima di racchiuderlo in un forte abbraccio che mi ricordò di quando eravamo solo dei bambini, ancora inesperti di arte militare e con l'unico desiderio di crescere.
Rimpiangevo quei tempi e se da bambino la fretta di diventare un uomo mi turbava l'animo ed era il primo pensiero che mi ridestava al mattino, adesso che ero adulto e vivevo le battaglie fino all'ultimo istante e all'ultima goccia di sangue, avrei solo voluto ritornare ad essere quello che ero un tempo senza alcuna preoccupazione ad attanagliarmi il cuore o ad occuparmi la mente.
Ma non si può riavvolgere il tempo.
"E allora che così sia."

Battaglia di Γαυγάμηλα (Gaugámēla o Arbela), 331 a.C.

Erano come uno sciame d'api quei soldati, pronti con le loro ali e i loro pungiglioni nascosti a colpire, a ferire, a ridurre il corpo dei loro nemici ad una semplice statua immobile del marmo più pregiato, a saltare addosso al più temerario dei guerrieri quando egli meno credeva potessero farlo; erano centinaia di migliaia o forse più, addestrate tutte allo stesso modo,
le api di Dario.
Si muovevano all'unisono e gli zoccoli dei loro cavalli sollevavano il terriccio del suolo, così da creare una vera e propria nebbia rossiccia che si estendeva a perdita d'occhio.
"Sono migliaia", commentò Cratero sprezzante, raggiungendo la sua pozione al mio fianco.
"Migliaia di bestie affamate e pronte a fare di noi ciò che meglio ritengono", aggiunse qualcun altro.
Resi acuto lo sguardo e riconobbi lo stendardo imperiale che si avvicinava ogni istante di più.
"Non saremo il loro cibo, soldati.
Combattete con tutte le vostre forze, non dimenticate mai per chi lo state facendo.
Non per me, non per chi vi aspetta nelle vostre tende o nelle vostre case, combattete per voi stessi, per la vostra patria", osservai uno per uno gli sguardi dei miei compagni e pregai silenziosamente, e per l'ennesima volta quel giorno, gli dei.
"Cercate di non farvi rubare la vita da quei βάρβαροι" dissi a voce alta in modo tale da essere udito anche dalla schiera nemica.
Sguainai la spada, la puntai alta nel cielo e ordinai ai miei uomini di attendere che Dario fosse il primo ad attaccare.
Efestione, a pochi centimetri da me, mi aveva fatto giurare di non commettere più l'errore di intercettarlo tra i soldati per valutare le sue condizioni nel pieno di un combattimento, per evitare, com'era accaduto in una delle ultime battaglie che ci avevano visti contrapporci all'esercito persiano, di venire ferito e di perdere dunque lucidità.
Non venni meno alla promessa fatta e riservai tutta la mia attenzione ai carri che Dario aveva inviato e che si stavano dirigendo come una mandria di animali inferociti contro gli uomini di Attalo, compatti ed ordinatamente disposti, come avevo comandato, a falange.
I nemici continuarono ad insistere sui fianchi dell'esercito permettendomi di penetrare la loro schiera e di raggiungere la retroguardia; continuai a percorrere quella direzione alla testa dei miei uomini e riconobbi lo stendardo imperiale. Bruciai gli ultimi passi che mi separavano da Dario, sgozzai la sua guardia personale, mentre i suoi uomini facevano a pezzi alcuni dei miei che, in preda al dolore, si piegavano in due e cadevano stramazzati al suolo.
La tentazione di voltarmi indietro e di guardare se uno di quei corpi appartenesse ad Efestione mi squarciava il petto in due, ma la soppressi e continuai ad avanzare e ad uccidere Persiani e mercenari indiani fin quando l'ala dell'esercito non fu completamente decimata.
Interruppi quella carneficina solo quando vidi la seconda ala arretrare e ritirarsi ad un ordine impartito dal comandante persiano Besso; la ritirata di quella parte dell'esercito avvantaggiò la mia avanzata inarrestabile.
Dario tentò invano di scagliare altri soldati contro le due ali del mio esercito, ma fu costretto a retrocedere trovandosi da solo in una battaglia che preannunciava già dal principio la sua disfatta.
Si ritirò alzando la stessa polvere rossiccia che all'inizio della battaglia sembrava tanto una cortina di fumo, lasciando dietro di sé un silenzio di morte e di sconfitta, la sua.
"Vittoria ad Alessandro, vittoria ai Macedoni!" una voce a me più che familiare si levò forte e chiara e spezzò il silenzio lasciato dalla fuga di Dario e con esso il timore che fino a qualche istante prima mi aveva tormentato il cuore.
Raggiunsi Efestione e lo strinsi tra le mie braccia, intrappolandolo in una morsa senza fuga.
Gli uomini continuarono a celebrare il nostro trionfo fin quando non ordinai loro di ritirarsi e raccogliere le spoglie dei caduti.
Ritornati all'accampamento, allestimmo le pire funebri per i soldati valorosi morti in battaglia, poi festeggiammo fino a tarda notte per celebrare la vittoria riportata sul nemico; quando fummo tutti stremati da non reggerci più in piedi, facemmo ritorno alle nostre tende con il cuore ricolmo di gioia.
Prima di raggiungere Efestione e di trascorrere la notte con lui, mi soffermai ad osservare ancora una volta quello stesso cielo dipinto di stelle e ringraziai per l'ultima volta i numi per avermi concesso la visione di quella Luna insanguinata che mi era stata tanto propizia.
Quando ormai venni vinto dal sonno era già l'alba e da lì a qualche minuto l'accampamento avrebbe cominciato a svegliarsi.
Efestione, come leggendo la mia mente, mi raggiunse e si sedette al mio fianco.
"Sei rimasto tutta la notte qui fuori, eppure sai quanto sia difficile per me dormire senza te al mio fianco, Alessandro", sussurrò al mio orecchio, posando le labbra sulle mie.
"Ti prego di perdonarmi, Efestione", dissi e smisi di baciare le sue labbra solo per guardarlo dritto negli occhi e rivelargli quanto lo amassi, poi, quando il Sole era ormai alto nel cielo, rientrammo nella nostra tenda e consumammo lì il nostro amore, perdendoci l'uno tra le braccia dell'altro.

Amantes AmentesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora