2. Vienimi a prendere e dimmi che per te sono l'unico

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«Che te prende? Te sei alzato co' 'na furia.», gli chiese il ragazzo biondo porgendogli l'accendino.

«Nulla, volevo fumare.», rispose l'altro. E, per rendere più esplicito il concetto, alzò la sigaretta tenuta fra le dita e la posizionò davanti alla visuale del compagno.

Biondo alzò le spalle. «Pareva te stessi pe' strozza'. Non t'ho mai visto così.». Fece una pausa per aspirare e «Siete strani ultimamente, tu e l'amico tuo, Einar.»

Filippo sembrò davvero per strozzarsi, questa volta con l'aria. L'effetto del nome del ventiquattrenne lo faceva sempre sussultare, come se fosse ogni volta la prima, come se quelle lettere insieme formassero una sinfonia dentro le sue orecchie da fare invidia a qualunque canzone prima di allora scritta.

Cercò di nascondere l'emozione. «Guarda che Ein è anche amico tuo.»

«Era pe' dì.». Lo fissò con lo sguardo di uno che cerca di risolvere la più difficile delle equazioni e, puntualmente, si arrende. Non è che il ragazzo fosse indecifrabile, è che in ogni occasione in cui doveva parlare di sé preferiva farlo tra le righe. No, indecifrabile è il ravvolgersi del mare su sé stesso, il rumore di tutto, dell'universo stesso; lui, semplicemente, si nascondeva. Si nascondeva come si nasconde l'anima ad ogni respiro, come il cuore di ognuno di noi finge di non battere più velocemente quando la nostra persona si trova giusto due passi più in là. Il suo era più un nascondere l'affanno dopo la milionesima corsa, non il decidersi se partecipare o meno.

«Tu e quell'altro siete strani, meglio?»

«Ma no, zio. Che dici?»

«Boh, un secondo prima stai tutto felice, quello dopo pare te sia morto er gatto.»

«Non ho un gatto.», controbatté Irama.

«Era pe' dì, bro. Il gatto non ce lo devi ave' pe' forza.», e scoppiarono entrambi a ridere.

A quell'età tutti dovrebbero solo stare bene. E puntualmente, invece, non va bene un cazzo. Ma è normale, è normale perché alla fine non c'è niente che una conversazione random tra amici non possa aggiustare. La cosa bella dell'essere in due nella vita è che non ti tocca sempre dover ascoltare gli altri, perché ci sono volte in cui l'unica voce nel discorso è proprio la tua. Non ti senti più dannatamente solo, finisci a parlare con persone che sembrano capirti perfettamente e i problemi grandi e piccoli cresciuti nella tua testa iniziano piano piano a scomparire. Perché l'amicizia ti strappa dalle braccia della solitudine, ti ritaglia un sorriso, fa uscire le farfalle nere raccolte dai tuoi demoni scacciandole via; l'amicizia ti fa prima di tutto bene, ed è una cosa bellissima.

All'amico non aveva raccontato di lui ed Einar, di quel sentimento improvviso che li aveva presi entrambi e trasportati via, eppure sembrava che non ci fosse il bisogno di spiegazioni. Biondo era una di quelle persone che, se gli raccontavi le cose, ne era più che felice, ma se non lo facevi, le scopriva lui da sé. E forse tanto difficile alla fine non era, si vedeva l'emozione dal semplice modo in cui si scambiavano un'occhiata. Sì, perché non sempre Filippo era in grado di sostenere il suo sguardo, molto spesso finiva addirittura per ignorarlo; era troppo potente, di quelli che ti entrano dentro e non ti lasciano mai più, e lui non riusciva ad ammettere a sé stesso di essere pronto per una sensazione del genere. Quindi spesso non lo guardava, ma non c'era un istante in cui non sperasse che gli occhi dell'altro fossero posati su di lui. Cercava in continuazione di nascondere l'agitazione quando si trovavano insieme, se ne usciva con i suoi soliti "fra", "zio", "bro", ma in realtà avrebbe voluto chiamarlo in un modo tutto suo, in un modo solo suo. È che il vero problema non stava nell'amarlo, che ancora non riusciva ad ammetterselo, quanto più nel sapere che avrebbe potuto non smettere mai, e quello sì che faceva davvero paura.

Fidati ancora di me. « EiramDove le storie prendono vita. Scoprilo ora