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Dopo dieci minuti sentii la porta aprirsi. Era Aksel. «Que fais tu?» mi domandò, quando mi vide con le gambe fuori dalla vasca e una mano tesa verso l'alto a studiare le piastrelle. «Penso» risposi.
«A cosa?»
«Non lo so»
«Moe mi ha chiesto di venirti a chiamare perché stai in bagno da un bel po'. Tutto okay?» sembrava preoccupato. Teneva una mano sulla maniglia e l'altra gli penzolava come un peso morto su un fianco; lo vedevo dallo specchio. Risposi che sarei scesa di lì a un minuto. «Dammi il tempo di raddrizzarmi la spina dorsale e arrivo, mh?» aggiunsi. Aksel annuì, e chiuse la porta piano. Fantastico, mi sentivo di nuovo sola.
Dopo essermi seduta in modo umano sul fondo della vasca, sentii di essere pronta per tornare a tavola. Erano le due, e Moe avrebbe portato presto la torta alle fragole. Specchiandomi, scoprii con sorpresa di non avere affatto l'aria di una che era stata colta improvvisamente da una crisi di pianto. Così, dopo essermi lavata il viso, uscii dal bagno senza nemmeno asciugarmi le mani.

Le scale scricchiolavano un po' quando ci posavi il piede sopra, quindi Moe si accorse subito del mio ritorno, e così anche papà che, sorridendo, disse: «Bene, ora che anche Nora è qui, possiamo finalmente mangiare la torta alle fragole!» Potevo capire dal tono della sua voce che avesse bevuto un po'.
Moe si alzò, e ritornò dopo poco con vassoio rettangolare, su cui era posata la gâteau aux fraises. Colette si rivolse a sua figlia, «Hai visto, Dora? La torta che ti piace!» a quel punto capii che Dorothèe, seppur avesse solo nove anni, sapesse già leggere il labiale.
Papà fece i complimenti a Moe per il l'ottimo lavoro svolto nella preparazione del dolce. Moe arrossì, «Sono contenta vi sia piaciuta» disse, sorridendo.
«Vorrei saperne fare anche io di torte così» disse Colette, con un sottile senso di malinconia.
«Si impara con l'esperienza» esclamò Moe, mentre distribuiva le ultime fette, «Le prime verranno sempre male, ma, come si dice, sbagliando si impara!»
Mi piaceva il suo positivismo; la rendeva ancora più onore.

Il pomeriggio fu noioso; mi ritirai in camera mia, senza dire niente a nessuno, a leggere e ad ascoltare le canzoni che passavano in radio. Anche quelle, però, si rivelarono quasi tutte noiose, eccetto una, di cui però ancora oggi non conosco il titolo. Laughing on the outside, crying on the inside, cause I'm so in love with you. Diceva sempre questo. Mi era rimasta in testa, e, man mano che giravo le pagine, seppur passasse una canzone diversa, in radio, fischiettavo la melodia della prima.
Aksel e papà avevano appena finito di sistemare i bagagli degli ospiti nelle loro rispettive camere. Poi, quando Aksel corse in giardino a giocare con la neve insieme a Dorothèe, papà ne approfittò per scambiare quattro chiacchiere insieme a me. «Che fai?» mi domandò, sedendosi sul mio letto. «Leggo», fu la mia risposta. Secca ed incisiva.
«Che leggi?»
Gli mostrai la copertina del libro. «Wow, La ricerca del tempo perduto; bello, ottima scelta» mi accarezzò delicatamente la testa. Sembrava fiero di me, e la cosa mi consolava molto. Avevo sempre il timore che, di punto in bianco, mio padre potesse di colpo cominciare ad allontanarsi da me. Come può un padre allontanarsi dalla propria figlia? non lo so; potrebbe succedere.
«Che mi racconti?» cercò di far andare avanti la conversazione. I suoi occhi sembravano implorarmi di raccontargli qualcosa. Qualsiasi cosa, anche la prima che ti passa per la testa. Vuoi un po' d'acqua? Dimmelo, ti prego. Parlami. Dimmi qualcosa.
Mio padre era un brav'uomo; si accorgeva sempre di tutto. Potevi evitare di dirgli che ti eri sbucciato un ginocchio, ma lui se ne sarebbe accorto lo stesso, e ti avrebbe aiutato a disinfettare la ferita. Perché, in fin dei conti, è questo quello che fanno i padri.

Nostra madre non era così. Era una persona molto fredda e distaccata; le piaceva stare sulle sue. Era un atteggiamento strano, per una madre. Si notava facilmente. Quando mi portava in paese, da piccola, non mi teneva mai per mano: si metteva a fissare le vetrine e mi lasciava scorazzare liberamente, ovunque volessi; quando era ora di tornare a casa mi prendeva e mi metteva nel passeggino, senza dire nulla. Io non mi lamentavo: dopo un po' diventa noioso camminare in tondo per un'ora intera, senza nessuno che ti tenga la mano, che ti parli, che ti spieghi che quei fiori che vedi laggiù crescono solo in primavera, o che l'albero che vedi davanti a te è un ciliegio che sta per fiorire. Non so cosa le passasse per la testa, ma quando se ne andò – io ed Aksel avevamo rispettivamente otto e undici anni – papà continuava a ripetere che fosse esaurita e griller le cerveau. Poi scoprii che, in realtà, aveva ragione: nostra madre soffriva di depressione sin da giovane, e non ci si poteva far nulla. C'era sempre stato qualcosa che la bloccasse, qualcosa che le impedisse di essere felice insieme a me. Ma questo non toglieva il fatto che sentissi terribilmente la sua mancanza e che, ancora oggi, le lettere che mi manda ogni mese, e a cui raramente rispondo, non colmano il vuoto che mi ha lasciato. Ma, almeno, mi fanno capire che è viva e che ogni tanto mi pensa.
«Quindi nulla di nuovo?» mio padre mi fece tornare alla realtà. Scossi la testa, niente di nuovo. Mi sorrise e guardò fuori dalla finestra, «Va bene. Ci vediamo a cena, allora»
Mi piaceva che capisse immediatamente quando volevo rimanere da sola. Non è una cosa da tutti.
La sera arrivò velocemente. Verso le sette papà accese il camino, e tutti si sedettero a terra, parlando del più e del meno. Io ero rimasta seduta nell'ultimo gradino delle scale, a guardare passivamente ciò che stesse accadendo, con il libro di Proust in mano. Improvvisamente sentii dei passi dietro di me: era Timothée. «Ciao» mi disse. Ricambiai il saluto con un cenno. «Non ti sei fatta vedere per tutto il pomeriggio, dove sei stata?»
«In camera mia»
«Anche io» si sedette di fianco a me e, vedendo il libro che tenevo in mano, esclamò: «Figo, l'ho letto anche io l'anno scorso, per un progetto scolastico»
«E ti è piaciuto?»
«Abbastanza. A te?»
«Sarà la terza volta che lo leggo. Mi ci rivedo parecchio, in certe cose.»
Papà avrebbe definito Timothée come un quelqu'un d'honnête. Una persona schietta ma non troppo. Sincera, ecco. Aveva un modo suo di dire le cose, un modo che mi faceva sentire al sicuro e a mio agio. Ogni tanto mi fermavo a sentire il suo tono di voce, caldo e delicato, come quando un'incudine tocca la pelle di un tamburo. E poi mi fermavo a guardargli la bocca, gli occhi, i capelli. Avrei voluto passargli una mano sulla guancia, per avere un contatto con lui. Ma quando meno me lo aspettassi, fu lui a farlo. «Hai le guance rosse, tutto okay?» gli spiegai fosse il calore del camino, e sembrò sollevato. Continuava a tenere una mano sulla mia pelle, come se fosse la cosa più naturale al mondo. Ti prego, non toglierla, pensai. Ma, proprio in quel momento, Moe ci chiamò per la cena; così Timothée tolse la mano.

jugend - timothée chalametDove le storie prendono vita. Scoprilo ora