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Ricordo che l'unica volta in cui andai in ospedale fu quando mi ruppi il braccio cadendo dallo skate. Era pieno autunno, e Moe era andata a trovare la sua famiglia in Giappone. Sarebbe tornata dopo due settimane. In ospedale mi ci portò papà col pick-up. Distava circa un'oretta da dove abitavamo noi. Mi fece sedere davanti, mentre Aksel stava dietro, nel posto centrale, e guardava la strada. «Ti fa tanto male?» mi domandò mio padre, a metà strada.     «Solo un po'» gli risposi. In realtà faceva un male cane, ma non volevo farlo sentire maggiormente in colpa, così mi risparmiai l'affermazione.

Quando arrivammo fummo travolti da un'ondata di persone che andavano di qua e di là. Medici, pazienti, familiari. Tutti sparsi in ogni angolo del piano. Non avevamo idea di dove andare. Io stavo in braccio a papà, mentre Aksel gli teneva la mano. Fu una delle ultime volte in cui mi prese in braccio, quella. Dato che nessuno di noi aveva idea di dove andare, papà chiese informazioni allo sportello. Dietro il vetro c'era una signora abbastanza robusta, sulla quarantina danni. Mi squadrò dall'alto al basso: «Qual è il problema?» ci chiese. Papà gli spiegò tutto.     «Ascensore C, terzo piano. Buona fortuna.» Papà la ringraziò, ma quando fummo abbastanza lontani, lo sentii dirle     «Vaffanculo» . Era una persona molto educata: non insultava mai una persona in faccia. Annuiva e basta. Chissà quante gliene aveva dette, dentro di sé.
In ascensore ceravamo solo noi ed una ragazza bionda, con un vestitino verde molto corto. Doveva andare al piano -1. Aksel le chiese perché dovesse andare così in basso: non si faceva mai gli affari suoi. Papà lo sapeva, invece. Glielo leggevo negli occhi.
In sala dattesa, per smorzare lansia dei raggi - che facevo per la prima volta in vita mia - chiesi a papà cosa ci fosse a quel piano. Papà sospirò. Si vedeva che non me lo voleva dire: ero ancora troppo piccola per saperle, certe cose. Quando sarai più grande te lo dirò. Diceva sempre così. Però poi molte cose me le ha dette per davvero.

In ogni caso, alcuni anni più tardi, quando io e Aksel tornammo in quell'ospedale per farci vaccinare, lessi il cartello davanti allascensore. Al piano -1 corrispondeva l'ala che si occupava delle malattie sessualmente trasmissibili, come ad esempio l'HIV. Era un reparto molto triste, non solo perché si trovasse sotto terra: era buio e dismesso e, sulle pareti, c'erano i fili scoperti delle prese elettriche. Metteva un po' paura. All'università venne un ragazzo a parlarci di questa associazione che si occupava della protezione di donne vittime di tratte, di abusi e di sfruttamento. Ci disse che passasse molto tempo in quel reparto, per portare le prostitute a fare gli esami per verificare non avessero contratto l'HIV in qualche rapporto non protetto. Ipotizzai che la ragazza col vestito verde molto corto fosse stata una di loro. Una prostituta, intendo. Mi venne molta tristezza, a pensarla così. Anche un po' di rabbia, se devo dirla tutta. Ma sarebbe un discorso troppo lungo da fare, questo.

Ci pensavo in quei tre minuti di silenzio che si stanziarono tra me e Timothée. Se avessi spostato di qualche centimetro la mano, sarei riuscita a toccare la sua. E l'avrei fatto, sul serio, se non fosse salita sua sorella Dorothèe su per le scale. Doveva andare al bagno. Sembrava più sicura di sé, da quando era arrivata. Credo fosse stato tutto merito di Aksel. Lui ci sa fare, in queste cose. Vorrei poter essere come lui.
«Che stiamo facendo, esattamente?» chiesi al ragazzo accanto a me, dopo un po'. Scoppiammo a ridere. Timothée si spostò su un fianco, tenendo il palmo della mano destra appoggiato al muro.     «Non lo so, ma mi piace guardarti»
«Senti, ma...» interruppi la frase a metà per mettermi nella sua stessa posizione, «Tu non mi odi neanche un po'?»
«Perché dovrei odiarti?» mi domandò. Avrei voluto dirgli che non si rispondeva ad una domanda con un'altra domanda, ma evitai. Gli dissi che avevo paura che un giorno sarei potuta diventare insopportabile. Lui mi rassicurò, dicendomi che non cera alcun rischio: a quel punto sarebbe diventato insopportabile pure lui.
Non ci spostammo di un centimetro. Restammo lì, appoggiati a quel muro, come se fosse la cosa più normale al mondo. Nessuno disse nulla. Nessuno salì le scale. Nessuno andò in bagno. Avrei voluto fosse sempre stato così. Avvicinai un dito alla sua mano. La sfiorai. Era bello avere un contatto così, con qualcuno. Era bello avere un contatto con Timothée. Mi sentivo piuttosto fortunata: là fuori cerano milioni di ragazze, ma in quel momento cero io, di fronte a lui.

So come funziona l'universo, in casi come questo. Ti fa vivere una cosa bella, te la fa assaporare, sembra che stia per acconsentire a lasciartela per sempre quando, ad un tratto, te la porta via. E tu non ci puoi fare nulla, perché era solo in prestito. Forse anche la felicità è in prestito; ciò spiegherebbe molte cose. Ma io avevo sedici anni, in quel momento, sedici anni e una vita davanti, anzi: sedici anni, una vita davanti e Timothée che ora mi stringeva la mano. Di affittare la felicità, in quel momento, non ne avevo un gran bisogno. E che me l'avesse portata pure via: tanto il sapore di quei momenti sarebbe stato per sempre impresso dentro di me. E dopo anni, quando torno in quella casa e appoggio le mani su quel muro e rivivo quella scena, penso che io all'universo non debba chiedere proprio nulla, perché sì: mi ha tolto e portato via molte cose, ma me ne ha date altre, e insieme a loro gli strumenti per andare avanti ed essere ciò che sono, e poco importa se la felicità è in affitto, penso. E quando chiudo gli occhi, passando la mano su quel muro, rivedo il viso sorridente di Timothée, e la luce che passa dalla finestra sul tetto, e penso che non mi voglio più spostare da lì, perché lì è casa. Quattro lettere in cui è racchiusa l'essenza di quelle tre settimane che ebbi la fortuna di passare con una delle persone che io abbia amato più al mondo.
E, nel silenzio di quei momenti, lo sento ancora chiedermi:

«Come stai?»

In un primo momento, quella domanda mi sembrò la più inappropriata da fare. Ora, ripensandoci, credo che abbia pensato a lungo prima di pormela. E credo che fosse l'unica cosa che valesse la pena di chiedermi, al momento dei fatti.

«Sto bene»

jugend - timothée chalametDove le storie prendono vita. Scoprilo ora