Era l'alba; non la vedevo da tanto tempo, e il fatto che la stessi vivendo con Timothée era sicuramente un segno. Onestamente, non credevo molto nei segni. Ma in quel caso, in quella situazione, in quel momento, mi sembrava fosse l'unica cosa giusta da fare.
Entrammo come eravamo usciti: in punta di piedi. Riuscimmo ad arrivare senza fare troppo rumore al piano di sopra: Chester stava dormendo a terra, in camera di Moe. Feci segno a Timothée di entrare in camera mia. «Vieni a vedere l'alba» gli dissi. Chiudemmo la porta dietro di noi e ci avvicinammo alla finestra. Respirai a pieni polmoni l'aria mattutina: da quel giorno, quel sapore lo associo a quello della felicità. Le goût du bonheur, direbbero i francesi.
«Mi piacerebbe poterla vedere tutti giorni, una cosa del genere» mi confessò Timothée.
Sorrisi, «Puoi farlo anche da casa tua: è gratis»
«Non me ne voglio andare, Nora»
Ritengo buffo come l'umore di una persona possa cambiare in così poco tempo; per esempio, la semplice frase che Timothée aveva pronunciato fece sì che le farfalle che avevo nello stomaco si trasformassero in un brevissimo lasso di tempo in vermi che mi stavano divorando le interiora. Perché lo aveva detto? Le persone sono una fregatura, e convincersi del contrario non aiuta a pensarla diversamente. Aveva rovinato tutto.
«Tanto lo farai lo stesso, come hanno fatto coloro che sono venuti prima di te, e come tutti quelli che verranno dopo di te.»
Mi sedetti sul letto, la mascella tirata, lo sguardo basso. Lo skate in quel momento mi faceva schifo. Le mie labbra mi facevano schifo; avrei voluto essere capace di strapparmele via, perché sapevano ancora di Timothée. E lui stesso mi ripugnò. Ma tutto ciò non poteva essere paragonato allo schifo che provavo verso me stessa. Che diavolo credevo di fare? Sapevo benissimo che se ne sarebbe andato, dopo quanto tempo non aveva importanza; se ne sarebbe andato lo stesso. «Devo andare in bagno, scusa» gli dissi, senza nemmeno guardarlo in faccia. Non mi interessava essere silenziosa: feci più rumore che potei, ma nessuno si svegliò. Meglio così: avrei urlato contro chiunque si fosse svegliato le cose peggiori, e papà sarebbe stato costretto a chiamare la Gaillard a pranzo, o quando diavolo avesse sentito il bisogno di farlo. «Chiamala pure!» gli avrei detto io, «tanto non potrà risolvere niente, quella là.» Avrei fatto fare una figura pessima sia a lui che a Moe. Mi avrebbero messa in punizione per la prima volta in tutta la mia vita; probabilmente non mi avrebbero fatta né pranzare né tantomeno cenare. E sai quanto me ne possa importare, dei tuoi pranzi del cazzo? Non me ne importa un accidente! Mi hai sentito? Un accidente! e poi avrei urlato anche un Cristo! solo perché Moe odiava che nominassi Dio invano. Ma l'avrei fatto di nuovo, e lei mi avrebbe tirato un ceffone. Mi sarebbe rimasto il segno per tutto il giorno, che avrebbe contribuito a farmi sentire peggio di come mi sentissi già. Non le avrei rivolto più la parola. Sarei scappata, avrei corso talmente tanto da cadere in un fosso, e ci sarei morta dentro, perché, nonostante gli urli, nessuno si sarebbe sentito in dovere di venirmi a salvare, dopo il mio comportamento; nemmeno papà. E sarebbe stato comunque meglio che vedere Timothée lasciarmi come avevano fatto tutti gli altri.
Mi sentivo stupida dopo tanto tempo; dopo tutto il lavoro che la Gaillard aveva fatto per non farmi più sentire così. Sentivo di aver buttato tutto nella spazzatura. Mi rendevo conto di essere come un calzino in lavatrice, e volevo solo che qualcuno staccasse l'elettricità e mettesse fine a quel vortice infinito di sensi di colpa. E quel qualcuno non doveva essere Timothée, perché avrei preferito girare su me stessa all'infinito, piuttosto. Non doveva essere lui.Restai in bagno per un bel pezzo; mi addormentai nella vasca, tra le lacrime e il vomito. Mi sentivo come un ubriacone depresso: non credevo sarei mai stata in grado di cadere così in basso. Nemmeno nelle occasioni peggiori mi ero mai sentita così. Perché il solo pensare all'addio di Timothée mi rendeva così vulnerabile? Che aveva, lui, di tanto speciale? Era come tutti gli altri, in fin dei conti: un ospite qualunque. Uno fra tanti.
Mi svegliai perché sentii grattare sulla porta. Era Chester. «Va' via» gli urlai, come se avesse potuto sentirmi. E infatti mi lasciò perdere. Ipotizzai si fossero alzati quasi tutti. Mi guardai: sembrava fossi stata appena investita da un camion in autostrada. Anche quello mi sembrò meglio del vedere Timothée partire. Tutto sarebbe stato meno doloroso di quello.Fu Moe a suggerire a papà di regalarmi uno skate. Me lo portarono in camera, il giorno del mio undicesimo compleanno, senza nemmeno averlo incartato: solo la tavola, le ruote, ed un fiocco rosso. «Tieni» mi fece mio padre. Lo presi in mano: la superficie era ruvida e fastidiosa, ma tanto avrei dovuto metterci i piedi, quindi non era un problema. «Ti piace?» mi chiese Moe, dopo che lo ebbi osservato per bene. Eccome, se mi piaceva. Era uno di quei regali che non avrei mai chiesto, ma che avrei accettato immediatamente qualora mi fossero stati dati. Fu la mia prima tavola. La ruppi nell'estate dei miei quindici anni, mentre tentavo di fare il 360 inward double heelflip, che secondo molti è il trick più difficile di tutti. Con lei ruppi anche il mio braccio destro che, per inciso, era quello che mi consentiva di scrivere. Né Moe né papà, però, mi vietarono di andare sullo skate; me ne comprarono così un altro. Tuttavia, non potendo usare un braccio, fui costretta ad allenare le gambe e i piedi; è per quello se ancora oggi ricordo tutti i trick. Ci passavo giornate intere e a volte, dopo cena, rimanevo sulla stradina davanti a casa nostra a sfrecciare sull'asfalto. Nemmeno Moe, che mi urlava di entrare, riusciva a farmi smettere di far strisciare le ruote sullasfalto, «Ancora dieci minuti, Moe!» le dicevo.
«Se non entri ti ci porto io a forza, signorina! Metti a posto quellaggeggio. Ora!»
Non c'era cosa che mi spaventasse più di Moe che pronunciava il suo Ora! Era una minaccia bella e buona, e, come vi ho detto precedentemente, con Moe non si poteva trattare. Così ero costretta a fermarmi, a togliere il casco – che, tra l'altro, nemmeno allacciavo, ma che tenevo semplicemente per far preoccupare meno papà – e con lui le ginocchiere, per poi tornare a casa, controvoglia. Odiavo fare le cose controvoglia, e lo odio tuttora. Solo che, ormai, ci ho fatto l'abitudine. E questione di esercizio: per esempio, abituarsi al fatto che le persone se ne vadano nonostante tu preghi che non lo facciano, ti aiuta a capire che ciò che succede non potrà sempre andarti a genio. È tutta esperienza.Mi lavai il viso con l'acqua gelata. Ci metteva un po a scaldarsi, e solitamente odiavo quei dieci secondi di attesa. Quel giorno, però mi sembrarono addirittura troppo pochi. Uscendo, sentii il vociare al piano inferiore, e il mio stomaco si contorse. Tra quelle voci c'era pure quella di Timothée. Avvertii un forte senso di disagio, e impiegai circa dieci minuti a riflettere sul Scendo o no?. Alla fine, però, lo feci. Scesi le scale. Un gradino. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette. Tutti mi vedevano, ora. Anche Timothée, che in quel momento era totalmente rivolto verso di me. Feci finta di nulla, mormorai un «Buongiorno» e mi diressi in cucina a fare colazione. Si, l'avrei fatta nel tavolo in cucina. E nessuno mi avrebbe detto nulla, perché altrimenti sarebbe successo il finimondo; fortunatamente nessuno aprì bocca. Mi cadde una lacrima sulla mano. Ma tanto non lavrebbe vista nessuno.
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jugend - timothée chalamet
Fanfiction❝ sperai che nemmeno lui riuscisse ad addormentarsi, e, per un secondo, immaginai che si stesse girando e rigirando tra le coperte, pensando a cosa stesse occupando i suoi pensieri a tal punto da togliergli il sonno. forse ero io. speravo di essere...