Non ero solita uscire, specialmente in inverno. Mi piaceva stare dentro casa, per i fatti miei, a guardare la tv o a leggere. Oppure a sentire le canzoni che passavano in radio. Anche in estate non amavo andare fuori, specialmente se dovevo farlo a piedi; quindi prendevo la bici oppure lo skate. Dipendeva un po' dai giorni.
Se in skate avevo imparato ad andarci da sola, in bici era stato tutto il contrario. Avevo sette anni quando papà me la portò. La scaricò dal pick up e me la porse: era rosa e bianca, senza le rotelle. Evidentemente a quelle non aveva pensato. Ma non gli dissi nulla: erano gli anni in cui credevo di saper e di poter fare tutto, quindi accettai semplicemente il regalo. Lo stesso pomeriggio, verso le tre e mezza, mi cimentai nel capire come diavolo si pedalasse. Una volta montata, feci in tempo a percorrere un metro circa che caddi a terra, di faccia. Mi sbucciai il gomito e cominciò a sanguinarmi il naso, ma non avvertivo alcun dolore. Mi sentivo solo parecchio delusa.Quella fu l'estate in cui arrivarono in paese Milo e la sua famiglia: erano italiani, precisamente di Torino, e avevano affittato per tre mesi l'abitazione che si trovava dietro casa nostra. Milo aveva dieci anni, e si era innamorato della mia bicicletta. Ne andava proprio matto. «È super figa! Ha sei marce, e non è poco. Ci sfreccerai con questa, eh?» C'era solo un problema: io, in bici, non ci sapevo proprio andare. Fu lui ad insegnarmelo, e in sua compagnia imparai anche l'italiano. Una mattina andai a suonare al campanello della casa che avevano affittato. Il ragazzo si affacciò dalla finestra e, sorridendo, mi chiese: «Che cè?»
«Non so andare in bici» gli dissi, quasi come se mi stessi rimangiando una bugia.
«Sì, l'avevo capito» mi rispose lui. «Che ti serve?»
«Apprends-moi» feci. Sua madre, Rebecca, insegnava francese. Lui lo capiva, quando lo parlavo. «Okay» disse. Poi scomparve.
Lo rividi pochi minuti dopo, di fronte a me. Mi assicurò che entro quel pomeriggio sarei stata capace di andare in bicicletta. E infatti fu così: quella sera tornai a casa con le ginocchia sbucciate, le gambe e le braccia piene di graffi, ma con un sorriso gigante in faccia: avevo imparato. Dopo due giorni, Milo se ne sarebbe andato.
Andai a salutarlo prima che partisse. «Merci pour m'avoir appris à fair du vélo» gli dissi, mentre i suoi genitori finivano di sistemare le valigie nel portabagagli della loro Peugeot.
«De rien, mon amie» mi rispose, sorridente. Rebecca mi abbracciò: «Siamo stati proprio bene. Salutami Moe e tuo padre, tesoro»
Le assicurai che l'avrei fatto. Suo padre, Luca, mi diede una pacca sulla spalla. «Sempre in gamba, eh?» mi disse. Montarono tutti in auto, poi partirono. Non sono più tornati, da quel giorno. Milo sarebbe stato fiero di vedere quanto sfrecciassi con quella bicicletta.Timothée ed io non ci rivolgemmo la parola per tutto il giorno. Lo guardavo ogni tanto, di sfuggita, senza che lui se ne accorgesse. Stavamo seduti in silenzio attorno al tavolo, in sala. Saranno state le cinque del pomeriggio. Dorothèe ed Aksel stavano giocando a dama. Dorothèe era un asso: aveva già vinto due volte. Mio fratello cominciava a spazientirsi, ma continuava a giocare. Stava attento ad ogni singola mossa, con la mascella tirata. Aveva la stessa espressione di papà quando lavorava. Io e Timothée eravamo seduti uno di fronte all'altro, e guardavamo in silenzio. Anche io, come Aksel, ero parecchio concentrata sulla partita. Non riuscivo a togliere gli occhi dalla scacchiera. Non mi accorsi nemmeno che Timothée mi stesse fissando da più di un minuto, ed era strano: avvertivo facilmente il senso del sentirsi osservati. Evidentemente, Timothée era diverso.
Tuttavia, sentii chiaramente il suo piede toccarmi la gamba; ebbi un brivido lungo tutta ala schiena. Mi voltai a guardarlo: aveva gli occhi fissi sulle pedine di sua sorella, e le mani intrecciate sopra il tavolo. Continuai a fissarlo finché non si voltò verso di me. A quel punto mi sorrise, inclinando la testa da un lato, come a dire Che cè? Qualcosa non va?. Che nervoso. Mi alzai di scatto e corsi in bagno, senza dire niente a nessuno. Entrai in bagno. Stavo veramente tanto tempo lì dentro, quei giorni. Specchiandomi, notai la pelle doca che avevo lungo le braccia. Non appena passai una mano sulla pelle ruvida sentii bussare. Era lui. «Posso entrare?» mi chiese, dietro la porta.
«No»
«Perché no?»
«Perché no.»
Aprì la porta lo stesso. Rimase sullo stipite, con la mano ancora sulla maniglia. «Che fai?» mi chiese.
«Non lo vedi? Mi sto specchiando»
Mi guardò le braccia: «Hai la pelle doca. Senti freddo?»
«No. Puoi uscire, ora?»
«No.» lo disse facendo schioccare la lingua sul palato. Continuava a guardarmi. Lo afferrai per un braccio e lo spinsi contro il muro: «Che diamine stai facendo?»
«Che sto facendo?»
«Beh, dimmelo tu.»
«Non stavo facendo niente»
Mollai la presa, mordendomi il labbro. Ero ancora più nervosa di prima. «Esci.» Gli ordinai. Non se lo fece ripetere due volte. Uscì dal bagno continuando a guardarmi. Avevo i nervi a fior di pelle. Avrei potuto strozzarlo, se avessi potuto. Ma non lo feci, perché non ero quel tipo di persona. E nemmeno quel tipo di scrittrice.Moe stava apparecchiando la tavola per la cena, quando mi avvicinai a lei e le chiesi se potessi uscire. «Wo gehst du hin?» mi domandò dove sarei andata.
«Irgendwo» le risposi. Mi disse di tornare prima di cena. «No, Moe. Non ceno qua»
«E dove, allora? Ma devi vederti con qualcuno?»
«No, no» feci, «Voglio solo stare un po' da sola. Porto Chester con me»
«Nora, non puoi uscire quando ti pare. O meglio, puoi farlo, ma devi tornare prima di cena»
«Non voglio cenare qua, ti ho detto. Voglio stare da sola»
«Ma che ti prene? Ultimamente sei diversa. Sai che puoi raccontarmi tutto-»
«Non è successo niente!» cominciavo a seccarmi, «Ci vediamo dopo»
«Non va bene così!» mi urlò, ma ero già vicina alla porta. Feci finta di non averla sentita ed uscii, chiamando Chester. Lui arrivò scodinzolando. «Tu sì che sei bravo» gli dissi, accarezzandolo. Poi ci incamminammo. Presi anche lo skate.Il sole stava cominciando a tramontare. Me li immaginavo, Moe e papà: infuriati come belve. Papà probabilmente avrebbe chiamato seriamente la Gaillard, stavolta. La chiamava sempre, quando qualcosa non andava. Era convinto che tutte le novità fossero negative. Era stata sicuramente la mamma a ridurlo così: sembrava un ipocondriaco. Aveva paura del mondo, e perciò, anche per una stupidaggine, quello chiamava la psicologa. Aveva sempre fatto così. Era nella sua natura.
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jugend - timothée chalamet
Hayran Kurgu❝ sperai che nemmeno lui riuscisse ad addormentarsi, e, per un secondo, immaginai che si stesse girando e rigirando tra le coperte, pensando a cosa stesse occupando i suoi pensieri a tal punto da togliergli il sonno. forse ero io. speravo di essere...