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Aksel aveva quattro anni quando gli fu diagnosticato l'ADHD, meglio conosciuto come Disturbo Da Deficit di Attenzione ed Iperattività. Se ne accorse papà vedendo che, quando facevamo qualche attività con altri bambini, lui non rispettava mai le regole, mai i turni, e voleva sempre cambiare gioco. A tavola non riusciva a stare fermo. Era davvero snervante. Non ascoltava mai e pensava sempre al dopo, «Dopo andiamo fuori a giocare» , «Dopo vediamo un film» ,     «Dopo voglio fare il bagno». Poi cambiava idea, e voleva fare tutt'altro.
Credo sia stata la prima volta, quella, in cui conoscemmo la Gaillard. Ricordo che ai tempi era ancora abbastanza giovane per potersi permettere di tenere i capelli legati in una coda che le arrivava fin sotto la schiena. Aveva un portamento elegante, ed un modo di parlare tranquillo e sereno. Non aveva l'aria da strizzacervelli. Sembrava più una a cui piacesse studiare le persone. Dopo che mamma se ne andò, cominciai ad andarci anche io. Mi ci portava papà ogni giovedì pomeriggio, dopo pranzo. Ci teneva.     «Se non vuoi parlarne con me, almeno fallo con lei. Ti farà star meglio, vedrai» mi diceva. E, in effetti, aveva ragione. Parlare con la Gaillard – la chiamo così dal primo giorno in cui la conobbi – mi faceva stare meglio. Allentava il nodo che sentivo allo stomaco.

Papà temeva che mamma ci avesse passato i geni malati. Una sera lo sentii parlare con Moe, mentre bevevano il tè.     «Spero solo non diventino come Naomi» lo sentii da dietro il muro. Mi fece tanta pena, in quel momento. Era un brav'uomo, ed io gli stavo spezzando il cuore con tutta quella tristezza che tenevo in corpo.
Volevo proprio bene a mio padre. Era l'unico che, dal primo giorno, c'era sempre stato. Di ripensamenti ne avrà avuti anche lui – come tutti, del resto – ma, senonaltro, non avrebbe mai preso la macchina nel bel mezzo del pomeriggio, lasciando i suoi due figli e sua moglie nel nulla più totale. Non ce l'avrebbe mai fatta. Non era quel tipo di persona.

Chester ed io stavamo ancora camminando verso chissà dove. Cominciavo ad avere fame, ma non volevo ancora tornare indietro. Cominciai a pensare a Timothèe. Cosa avrebbe pensato a cena, non vedendomi? Probabilmente nulla. Mi avrebbe odiata, prima o poi. Forse era lì che volevo arrivare. Forse no. Timothèe era entrato all'improvviso nella mia vita, e già l'aveva scombussolata ben bene. Non che mi dispiacesse, ma avrei preferito scombinarmela da sola. Chester correva davanti a me; faceva qualche metro, si fermava, si girava verso di me, e aspettava che lo raggiungessi. Sorridevo ogni volta e gli correvo incontro. Ad un tratto mi fermai: il rumore delle ruote dello skate sull'asfalto mi facevano venire ancora più sensi di colpa. Cosa avrei voluto fare da sola, alle sei del pomeriggio?     «Fare un giro», pensai. Per andare dove, poi? Non c'era anima viva, là intorno. Solo io e Chester. E il rumore dello skate. Stavo facendo una cavolata. E, probabilmente, avevo anche fatto arrabbiare Moe. Sospirai.     «Torniamo indietro, Chester» gli dissi. Lui non protestò. Forse era stanco anche lui. Così invertimmo la marcia, per tornare a casa.

Quando aprii la porta di casa li vidi. Erano quasi le otto, e stavano seduti attorno alla tavola, pronti per mangiare. Calò un silenzio assordante. Il mio posto vuoto, accanto a Dorothèe, era stato comunque apparecchiato; ciò mi fece sentire meno ansiosa. Chiusi la porta dietro di me, e Moe si girò. Mi sorrise.     «Menomale che non ce l'ha con me» , pensai. Poi mi sedetti al mio posto, davanti a papà, che mi passò la carne. Il recipiente scottava, ma non mi importò più di tanto. L'importante, per me, era sapere che nessuno lì dentro mi stesse odiando.

Avevo sbagliato, e l'avevo riconosciuto: per questo ero tornata indietro. Non l'avrei fatto, altrimenti.     «Dove sei stata?» mi domandò mio padre. Gli risposi che avevo portato Chester a fare una passeggiata. Lui guardò l'orologio che teneva al polso:     «Per unora intera?»
«Sì. Per un'ora intera» lo dissi sorridendo, mentre buttavo la carne nel piatto. Papà annuì, e tutti tornarono a parlare tra loro. Tutti tranne Timothée: lui stava mangiando la sua cena in silenzio, con il palmo della mano sopra il tavolo e gli occhi bassi. Mi fece tristezza. Avrei proprio voluto abbracciarlo, ma sarebbe stata una cosa strana. Quindi abbassai lo sguardo anche io, mentre dentro di me pensavo a quanto fosse stata esagerata la mia reazione. Ormai non ci potevo più far nulla, però. Pazienza.

Avrei davvero voluto riavvicinarmi a Timothée. Tuttavia, c'era sempre qualcosa che mi bloccasse dall'andare oltre il puro e semplice Ciao, come va?. Forse era semplicemente un avvertimento, da parte del mio subconscio, che mi suggeriva di lasciarlo perdere. Tanto dopo una settimana se ne sarebbe andato, ed io sarei stata ancora peggio. Mantenevo perciò una certa distanza, nonostante volessi, ogni tanto, andare lì ed arruffargli i capelli, come avrebbe fatto chiunque al posto mio; però non lo facevo mai. Seppur le mani mi formicolassero, con molta fatica le tenevo al loro posto, lungo i fianchi o sotto il mento.

Un giorno, però, – e lo ricordo con esattezza, dato che sarebbero partiti dopo cinque giorni – mentre stavo leggendo un libro di cui mi importava poco o niente, scoprii con sorpresa la sua figura davanti al camino, intenta a guardare la TV. Di solito mi accorgevo, quando qualcuno entrava in stanza; ma, come ho detto, Timothée era diverso dagli altri. Così finsi di continuare a leggere. E lo feci per un bel pezzo. Ogni tanto alzavo gli occhi dalle pagine – stavo rileggendo la stessa frase da più di cinque minuti – e mi mettevo a fissarlo, concentrato davanti alla televisione. Avevo una stretta al cuore ogni volta. Era proprio lì, davanti a me, in carne ed ossa. Non cera nessunaltro, solo noi due. Ed io continuavo a stare zitta.
Dopo circa dieci minuti si alzò per andarsene; spense la tv e mise il telecomando sopra al tavolo. Appena mi passò accanto, senza nemmeno guardarlo negli occhi, lo presi per un braccio. Avrei voluto pregarlo di restare o, come minimo, di sedersi accanto a me. Ma dalle mie labbra uscì solo un     «Dove vai?» detto in maniera talmente dura da far pensare a chiunque che fossi arrabbiata.     «In camera» mi rispose lui. Non tolse la mia mano dal suo braccio; non fece assolutamente nulla. Restò immobile nella posizione in cui l'avevo fermato.
Mi girai verso di lui,     «Perché? Non ti va più di guardare la TV?» chiesi.
«No »
«Okay» pensavo che la conversazione fosse terminata. Mollai la presa e tornai a leggere quella stramaledetta riga che leggevo da minuti interi. Timothée però non si mosse.     «Vuoi venire su con me?» mi domandò. Chiusi immediatamente il libro.     «Okay» feci. Mi alzai e salimmo le scale. Io dietro e lui davanti.
Arrivammo in corridoio, e lì ci fermammo.     «Perché non mi parli più?» mi chiese Timothée, appoggiandosi al muro. Domanda lecita, pensai. Mi appoggiai anche io, proprio accanto a lui.     «Non lo so» risposi.
«Cosa vuol dire non lo so? Ti ho infastidita? Oppure offesa, in qualche modo?»
Mi sentivo in colpa. Che avrei dovuto rispondere? Era difficile per me ammettere ancora una volta che se ne sarebbe andato. Ma lo dissi e basta.
«Tra cinque giorni te ne vai», dissi. Timothée capì. Restammo in silenzio.

jugend - timothée chalametDove le storie prendono vita. Scoprilo ora