No.20

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Sono nella mia stanza.
8 giugno.
Venerdì.
Ultimo giorno di scuola.
Non voglio andarci.
Tanto non faremo niente.
Tanto non vedrò nessuno.
Non succederà assolutamente niente di interessante.
Che senso ha?
Ma no.
Mia madre non me lo permette.
Mi urla contro -"Raffaele, vai a scuola!"
"Non trovo motivi per farlo."
Le dico.
Guardo il soffitto.
È così vuoto.
-"Vai a quella dannata scuola, Raffaele, sennò sei agli arresti domiciliari!"
Sbuffo.
Quando cerca di minacciarmi è ridicola.
Sa benissimo che fallisce il 99% delle volte.
Che faccio sempre di testa mia.

Mi alzo lentamente dal letto.
Metto la prima maglietta che trovo nel cassetto e un paio di jeans.
Le immancabili converse ai piedi.
Salto la colazione ed esco.
Sento gli occhi indiscreti di mia madre addosso.
Che cercano di intimorirmi.
Che aspettano un saluto.
Un cenno.
Qualunque cosa.
E li assecondo.
"Ciao."
Lei sorride.
-"Ciao, tesoro."
Già.
Chiudo la porta.

Sull'autobus lo scenario è sempre lo stesso.
La sua monotonia e la musica negli auricolari mi ispira.
E inizio a scrivere.
Ho lo stesso quadernino da sempre.
È logoro.
Le pagine sono quasi gialle e alcune sono persino piegate.
Nonostante io cerchi di tenerlo al meglio.
Quando ero più piccolo gli avevo dato un nome: Alan.
Lo feci per sentirmi meno solo.
Mi piaceva l'idea di avere un amico costantemente presente.
Che era disposto ad ascoltare ciò che avevo da dire e a sopportare l'opprimente persona che sono.
Continuo a dargli del tu.
Ma non lo chiamo più per nome.
Solo ogni tanto.
Non è un diario, perché, effettivamente, non gli parlo delle mie giornate.
Non gli dico stronzate adolescenziali.
Ma mi apro completamente con lui, più di quanto lui non faccia già con me.
Gli dò disponibilità e rispetto, in cambio di pareri.
Gli chiedo cosa posso fare quando non ho idee, quando non riesco a pensare a nulla di razionale.
Gli chiedo supporto morale.
Gli chiedo di essere anche un padre.
Ho bisogno di qualcuno che mi dica: "Lele, questa è una stronzata, evita."
O che creda in me.
"Lele, ce la farai!"
Già.
L'unico genitore che ho ha talmente tanto da fare che ormai non pensa neanche a sé.
Io resto qui.
Davanti a un mondo enorme che gode nel vedere che hai sbagliato o che stai per farlo.
E resto qui non perché non so dove andare.
Ma perché c'è ancora qualcosa o qualcuno che mi lega a questo posto, a questo quartiere, a questa città.

Mi sento così perso, vuoto.
Così.. senza senso.
Forse era meglio se non fossi nato.
A volte mi chiedo come vivessero se non ci fossi.
Si accorgerebbero della mia assenza?

L'autobus fa capolinea.
Metto il quadernino nello zaino.
Scendo.

A scuola c'è il caos generale.
Chi corre, chi urla, chi va in qualsiasi aula gli capiti a tiro.
Hanno allestito un tavolo in ogni classe.
Tovaglia di carta, bicchieri di carta e piatti di plastica.
Poi, snacks da far schifo si sono materializzati nei piatti, nei bicchieri e tutti lì, accaniti, a prenderne a quintali.
Vittorio è appoggiato alla parete, vicino al tavolo, con un bicchiere in mano.
Parla con Luigi e un ragazzo non della nostra classe.
Ogni tanto guarda nella mia direzione.
Forse non cerca me.
Forse.
Dopo quel sabato ha cercato di parlarmi.
L'ho sempre ignorato.
Non gli voglio male.
È solo che non posso accettare che se ne sia andato.
Non sono un cucciolo che va protetto a ogni costo, ma almeno abbi la decenza di non andartene da qualche tossico a cui non frega niente di te!

Alcuni banchi vengono rovesciati.
Prendo gli auricolari.
Alzo il volume.
Parte una canzone dalla riproduzione casuale.
Una indie.
Ma cambio.
Scelgo la mia playlist di solo rap.
Sono circa 150 brani.
Amo il rap.
Amo ascoltarlo e "cantarlo".
Amo le parole, le basi.
Amo lo stile in sé.
Voglio vivere d'arte, acqua e rap.
Magari su un prato.
A disegnarmi la mente.
A scrivere prati.
A nuotare nelle note.
Ad ascoltare salsedine.
Magari di notte.

Domani sera c'è il ballo di fine anno.
Lo facciamo ogni anno.
Giada, una nostra compagna, adora organizzare.
Così, ci ritroviamo spesso a dover fare qualcosa insieme.
Mi piacerebbe essere anch'io parte di questa classe.
Eppure, non ci riesco.
Non ancora.
Mi chiedo se ce la farò mai, visto che restano due anni.

I balli di fine anno non comprendono solo la nostra classe, ma è più un "se hai un amico interessato, invitalo."
Diciamo che è aperta a tutti.
Chissà se Margherita verrà.
Mi passa una malsana idea in mente: invitarla?
Ma no.
Non posso.
Non la conosco abbastanza.
E poi, ci sarebbe troppo poco preavviso.
Meglio di no.

Non credo che ci andrò.
Non ci vado mai.
In prima ho visto il posto, l'ambiente.
Non fa per me.
Sono tornato a casa dopo solo 15 minuti.

Suona la campanella.
Quinta ora.
Esco dall'aula.
Tanto non stiamo facendo nulla e i professori girano in corridoio.
La cerco un po' ovunque.
Non la vedo.
Se non è neanche in classe, probabilmente, non è venuta.
E, in quel caso, avrebbe ragione.
Chi viene l'ultimo giorno?

Faccio capolino dalla porta e dò un'occhiata.
Invece è lì.
In piedi.
Guarda fuori dalla finestra.
E parla a qualcuno.
E accenna dei sorrisi ogni tanto.
E passa il tempo.
Io non riesco a muovermi.
Ma lei sì.
Si gira verso la cattedra.
Sposta lo sguardo.
Al che mi nota.
E mi sorride.
E io ricambio.
Sento alleggerire il peso enorme che mi stava schiacciando il petto.
Dio, sembro un idiota.
Eppure, con lei, non riesco a non esserlo.

Ho un fiore nella scarpaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora