Arancio terra

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L'estate del 2009 fu l'estate più calda dell'ultimo ventennio: o almeno così recitavano i giornali. Ricordo testate monotematiche, articoli pieni di statistiche, annunci televisivi quasi allarmanti. E, soprattutto, ricordo le interminabili corse del tram, stipato tra borse, zaini, spalle e gomiti, cercando di non far cadere il caffè freddo nel thermos che, nonostante tutto, mi ostinavo a portare.

Ricordo la città, fuori da quel tram, quasi deserta. Era agosto ormai e le famiglie erano in vacanza, i lavoratori in ferie, gli studenti fuorisede nuovamente a casa; nonostante l'intenso calore del sole riflesso sull'asfalto appena al di fuori della definita sagoma delle ombre di palazzi, alberi e negozi, si respirava una fresca aria di solitudine.

Quanto a me, io non smaniavo per tornare dalla mia famiglia, non avevo bambini a cui badare o case al mare dove intrattenermi. Per questo, come ogni anno all'inizio dell'estate, avevo rubato i giornali agli espositori della metro, raccattato ogni copia lasciata incustodita sui tavolini dei bar, fatto ricerche dai computer della biblioteche e, infine, intrapreso interminabili conversazioni telefoniche ed interviste per firmare qualche contratto estivo.

Ottenere quello dell'Agosto 2009 non era stato difficile: niente intervista, niente curriculum. D'altro canto, per lavorare in un cantiere, gli esami di medicina che da cinque anni a quella parte cercavo di dare non servivano a molto... piuttosto, cercavano un paio di forti braccia e tanto bisogno di soldi. Ero il candidato perfetto.

Non sapevo esattamente cosa stessimo costruendo, a dire il vero. Ricordo solo il maledetto caldo che faceva sotto quel caschetto di plastica gialla rigida e quel gilet catarifrangente che quando tornavo a casa sembrava essersi incollato alla pelle con il mio sudore. Ricordo le ustioni sulle braccia e sul naso, ricordo i muscoli doloranti ogni singola mattina a ogni singola frenata più brusca di quel tram. Insomma, un lavoro di quelli per cui non vieni mai pagato abbastanza. Ma, d'altro canto, avevo bisogno di soldi per l'affitto.

Quella mattina non era iniziata in modo diverso rispetto alle altre. Mi ero svegliato – ovviamente il più tardi possibile senza rischiare di arrivare in ritardo – fatto una doccia freddissima, vestito, addentato un pezzo della pizza che avevo ordinato la sera prima, inforcato gli occhiali da sole e aspettato il tram una mezz'ora più del previsto. Ero arrivato, mi ero cambiato velocemente e «hey Fabio» avevo salutato l'unico altro studente del cantiere con cui, quasi tutte le sere, andavo a prendermi una birra fredda al pub dietro l'angolo.

«Diletta ti ha chiamato?» mi chiese, con un sorriso malizioso stampato sul volto.

Alzai gli occhi al cielo, accennando anche io una piccola risata al pensiero della ragazza che ormai un mese prima avevo incontrato al centro, una serata in cui io e Fabio c'eravamo spostati un po' più a sud per andare a bere qualcosa. Era una bella ragazza, tutto sommato: le gambe affusolate e magre, gli occhi grandi e verdi incorniciati da dei grandi boccoli castani. Un portamento elegante nonostante i sandali alti, un aspetto aggraziato nonostante il rossetto bordò disegnato appena oltre il vero contorno delle sue labbra.

Era una bella ragazza tutto sommato – come continuava a ripetermi Fabio – eppure continuavo a non rispondere al telefono quando il suo numero compariva sulla schermata.

«Non avresti dovuto darle il mio numero.» Sbuffai con voce affaticata mentre puntellavo la pala nel terreno duro per poi ritirarne su solamente polvere color arancio.

«Mi sembrava un buon partito!» Rise, perché se i ruoli fossero stati invertiti e fosse stato lui quello tartassato dalla bella ragazza con le gambe affusolate, allora sì che già dalla prima chiamata Diletta avrebbe ricevuto risposta.

"Non voglio incastrarmi con qualche ragazza", "ho altro per la testa", "devo concentrarmi sull'università", "non sono davvero interessato" – cercai una risposta secca che troncasse il discorso, eppure non ce ne fu bisogno: tutte quelle scuse mi morirono in gola, strozzate dal suono metallico che proveniva dalla punta della pala che avevo appena infilzato nel terreno e dalla vibrazione dell'asta di legno tra le mie mani, causata dall'urto.

Come ho detto, quella mattina non era iniziata in modo diverso rispetto alle altre, ma gli eventi a catena che avrebbe causato avrebbero da lì a pochi mesi sconvolto la mia intera vita.

Non guardai Fabio, ma seppi dal suo silenzio e dall'immobilità della sua pala che anche lui aveva avvertito la presenza del corpo estraneo sotto la mia e attendeva solo che facessi la prossima mossa, a metà fra la curiosità e l'eccitazione.

Fui un attimo indeciso sul da farsi: pensai inizialmente che fosse una tubatura, ma non era mai capitato dall'inizio del cantiere fino a quel momento. Forse una radice, pensai, ma sentivo ancora nelle orecchie il ronzio metallico dell'oggetto che avevo colpito: no, non poteva essere una radice. Diedi qualche altro colpo di pala e, quando riuscivo ad intravedere appena un bordo blu, mi abbassai velocemente – attento a non farmi vedere dal capo cantiere che si trovava non troppo distante da lì – e, afferrato con i guanti, estrassi dal terreno quella che assomigliava a una comunissima scatola di latta per biscotti.

Divertito e stupito per la scoperta, lanciai un'occhiata a Fabio che, appoggiato col gomito sulla sua pala, mi guardava estasiato.

«Aprilo, cosa aspetti?!»

Fabio faceva matematica, e non era il tipo di ragazzo a cui piace aspettare. Non aveva aspettato per chiamare Federica – l'amica di Diletta che era con lei quella sera – non aveva aspettato che venissero pubblicate dalle università le graduatorie del test d'ammissione per lasciare casa e il paesino in cui era cresciuto – e quindi aveva iniziato con un anno di ritardo, in cui aveva vissuto appieno la vita mondana della città. Non aveva aspettato il conto finale a capodanno quando, ubriaco come non mai, aveva messo incinta una ragazza di quinto superiore; non sapeva aspettare il fine settimana quando, finalmente, poteva vedere la sua bimba di un anno e mezzo e stringerla al petto come se la volessero già riportare via. Fabio non era il tipo di ragazzo a cui piace aspettare ma, almeno, sapeva accettare le conseguenze delle sue scelte avventate.

«Voglio la metà del valore di qualunque cosa ci sia dentro.»

Disse non appena mi tolsi il guanto della mano destra con i denti e avvicinai le dita all'apertura.

Fabio era il tipo di ragazzo a cui non piaceva aspettare neanche fine mese, quando lo stipendio veniva spedito dritto dritto sul conto in banca. Ma guardando la piccola Elisa, potevo biasimarlo?

«Dubito questa roba valga qualcosa.»

Esordii una volta aperta la scatola di latta. L'interno era giallo, rivestito di una carta bianca trasparente; conteneva una forcina per capelli, un cellulare usa e getta, l'edizione tascabile di un libro consumato dal titolo in tedesco, un ciondolo e, infine un biglietto di carta piegato a metà.

«Certo che no.» Rispose sbuffando Fabio, mentre tornava a dedicare la sua attenzione alla pala e alla terra sotto i suoi piedi. Io, dal canto mio, ancora non avevo intenzione di lasciar perdere.



Fase ZeroWhere stories live. Discover now