Matteo

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Le avevo dato appuntamento in un posto abbastanza neutrale, un bar dove ogni tanto avevo preso un caffè con un collega di lavoro – quando avevo lavorato in quel lato della città. Quel pomeriggio c'era un vento freddo e le nuvole minacciavano pioggia, così mi misi ad aspettarla dentro, ad un tavolino rotondo fatto di pietra, che dava proprio sulla strada. Ordinai un the caldo.

Quando vidi dall'interno del negozio una ragazza con un giubbotto rosso e i capelli biondi a caschetto che mi sorrideva, la guardai confuso; non mi fu chiaro che fosse lei la persona che stavo aspettando fin quando non entrò dentro, si accostò al mio tavolo e «tu devi essere Matteo» mi disse, porgendomi la sua mano «grazie per avermi incontrata.»

Le sorrisi incuriosito, alzando una mano per richiamare l'attenzione del cameriere; quando fu al nostro tavolo la feci ordinare e, ancora, le sorrisi. Ordinò una cioccolata calda.

«Dunque, sapevo che questo giorno sarebbe arrivato, ma mai mi sarei aspettata di ritrovarmi davanti un bel ragazzo come te. Come hai detto che hai trovato la scatola?»

Disse, con fare leggermente civettuolo, mentre si scostava il ciuffo biondo dal viso; aveva degli occhi molto grandi e grigi e, dalla sua espressione, avrei detto qualche anno in più di me.

«Lavoravo in un cantiere. L'ho dissotterrata, aperta, trovato gli indizi dentro. Eccola a te.» Le spiegai, tirando fuori dal mio zaino la scatola e mettendola al centro del tavolo. Lei la prese sospirando e, con una certa eccitazione stampata negli occhi, la aprì. Afferrò subito il ciondolo: aprendolo. Al suo interno, la foto di quello che dopo scoprii era suo padre da giovane, le riempì gli occhi di lacrime.

«Avevi un bel rapporto con lei?» Azzardai, mentre lei compiva l'intimo atto di toccare e osservare tutte le cose che erano un tempo appartenute alla sua mamma. Annuì.

«Molto. Anche quando siamo stati costretti a ricoverarla nel centro, andavo spesso a trovarla. Negli ultimi anni avrei quasi detto che era guarita, ma lei non voleva tornare a casa perché diceva che aveva le sue amiche lì. E poi continuava a raccontarmi che avevo un fratello che un giorno sarebbe venuto a cercarmi, che avrei dovuto dirgli che ero la fase tre e parlarle di noi. Il fatto che avesse ancora queste illusioni mi ha fatto esitare, ho temporeggiato e non sono riuscita a decidermi di portarla a casa e... un mese dopo è venuta mancare.»

Annuii a mia volta, dandole qualche secondo per riprendersi. Solo dopo le feci vedere il numero in rubrica, spiegandole che se avesse voluto sentire la sua voce, in quella segreteria era rimasta impressa per sempre. Mi ringraziò.

«Forse è una domanda stupida» lo era, ma ciò non mi fermò dal farla: avevo bisogno di togliermi ogni dubbio. «Come fai ad essere sicura che non stesse dicendo la verità?»

Sorrise.

«Mia madre ha rischiato la vita per avermi. Ne è rimasta sterile. E prima... beh, aveva diciassette anni quando mi ha avuta. I miei nonni l'avrebbero saputo se lei avesse avuto un altro figlio.»

L'illusione che quella scatola fosse effettivamente collegata a mia madre si era già dissipata quel giorno, su quel treno, quando digitando quel numero mi aveva risposto una voce giovanile, dall'accento austriaco. Ad ogni modo, averne la conferma mi fece annodare la gola e distendere le spalle.

Il cameriere arrivò con il nostro ordine e qualche pasta offerta dalla casa. Ringraziai, lo mandai via. Presi un respiro e ripresi a parlare.

«Non ti nascondo il fatto che per un attimo ho pensato che fosse mia madre.» Le dissi, mentre lei sorseggiava la sua cioccolata. «E' stata anche lei rinchiusa in un istituto quando avevo quattro anni. Ma chiaramente non è la stessa persona.» Sorrisi e abbassai lo sguardo, come per giustificare il mio abbaglio e, un po', per mascherare la mia delusione.

«Perché dici che l'hanno rinchiusa?» Mi sorprese, con quella domanda. «La maggior parte delle persone che sono negli istituti hanno coscienza della loro condizione e accettano di essere lì per curarsi. Non siamo più negli anni venti.»

La guardai negli occhi, come per capire se mi stesse prendendo in giro o meno. Dalle iridi ancora lucide capii che mai si sarebbe permessa di scherzare su un argomento del genere e allora, sempre più incuriosito, continuai a guardarla nell'attesa che mi desse qualche altro dettaglio.

«I pazienti che si fanno curare in una clinica del genere-» mi ci volle un po' di autocontrollo per non ridere a una così articolata perifrasi «- non sono cattivi e spesso non pericolosi. Dipende dalla clinica comunque. E spesso perdono la cognizione della vita reale al di fuori di quelle mura. Mia madre, ad esempio, non voleva più uscire. Ma dovevi vedere come stava bene!»

«Per questo hanno bisogno che li si vada a trovare regolarmente. Devono mantenere il contatto con l'esterno. La famiglia deve fare un percorso con loro. Tu non sei mai andato a trovare tua madre?»

Un'altra domanda alla quale non ero in grado di rispondere; prima Giulia, ora la ragazza bionda dal cappotto rosso. Ma, il bello, era che quelle domande non me le ero semplicemente mai poste! O meglio, erano stati quei pensieri che scacci via come i moscerini, ricordate? Giulia era la mia migliore amica, perché ci sarei dovuto stare insieme? Mia madre era in un istituto psichiatrico, perché sarei dovuto andare a trovarla? Sembrava un luogo così distante e inaccessibile, dove le persone vengono legate ai letti e dimenticate dai parenti; eppure, avevo davanti la dimostrazione che non doveva essere così, se non volevo. Avevo davanti a me la dimostrazione che, scegliendo consapevolmente, avrei potuto cambiare le cose: con mia madre, con Giulia, con chi volevo. Scegliendo consapevolmente, avrei potuto iniziare a vivere la mia vita, invece di essere vissuto da essa! Sarei potuto diventare il protagonista.

Forse, finalmente, sarei potuto essere felice.

Le sorrisi e, senza neanche finire il mio the, tornai a casa.

Fase ZeroWhere stories live. Discover now