Quando a Natale mi presentai in paese mano nella mano con mia madre, papà restò senza parole, indeciso se farci entrare in casa o meno. Era ormai un mese e mezzo che andavo a visitare mia madre regolarmente, ogni settimana, alla clinica che si trovava a circa quaranta minuti di macchina dal mio appartamento. L'avevo trovata non con pochi sforzi ma, una volta risalito al suo codice fiscale, non era stato difficile chiamare l'istituto e chiedere di incontrarla. Il dottore che la seguiva ne era stato entusiasta.
Per la prima volta nella mia vita qualcuno si era seduto al tavolo con me e mi aveva raccontato di cosa soffrisse mia madre, cosa questo significasse, cosa comportasse; come comportarmi accanto a lei, cosa dirle per rassicurarla, cosa fare nel caso di una crisi. L'avevo incontrata quello stesso giorno, seduta su una panchina nel cortile della clinica. Mi aveva sorriso con serenità, gli occhi bagnati di lacrime.
«Mi sei mancato.»
Solo questo, nessun rimprovero per non aver mai chiesto di lei, nessun rimprovero per averci messo tanto a trovarla. Era bella, i capelli lunghi raccolti in una treccia argentea e il viso ancora ben steso. Pensavo che vederla in età avanzata avrebbe un po' rovinato l'idea che avevo di quella mamma così bella e giovanile che dimenticava le torte in forno – e ora sapevo il perché – invece l'età avanzata non aveva deturpato il suo viso con rughe marcate ma, anzi, l'aveva adornato con graziose linee d'espressione.
Ogni volta che andavo a trovarla imparavo qualcosa di nuovo su di lei e sulla sua vita prima di me: mi raccontò che il disturbo psichico che aveva le era stato passato geneticamente da sua madre e che quando aveva cominciato a riconoscerne i segni, era lei che aveva insistito affinché fosse portata in una clinica. Quando me lo raccontò inizialmente mi arrabbiai, le chiesi se non avesse voluto vedermi crescere, le chiesi se non avesse pensato a suo figlio di quattro anni che avrebbe abbandonato. Poi mi raccontò di come lei, a sette, aveva trovato sua madre – mia nonna – in una vasca da bagno rossa sangue, con i polsi tagliati e i cocci di un vaso insanguinato sul pavimento. Capii che se si era allontanata, l'aveva fatto anche e soprattutto per me.
Mi raccontò di come aveva conosciuto mio padre: alla festa della parrocchia del paese, due loro amici li avevano presentati e da quel momento non si erano più separati. Tre anni dopo si sposavano e dopo altri due aspettavano me, il piccolo Matteo. Mi disse che avevo gli stessi occhi blu di mio padre, mi disse che le sembrava di guardare lui, guardando me. Mi disse anche che se ne andò di nascosto, perché lui non voleva lasciarla: diceva che l'avrebbero curata insieme, ma lui non era uno psichiatra. Se ne andò senza dire nulla, per il piccolo Matteo, e di loro non ne aveva più sentito per vent'anni.
Quando le chiesi se avesse voluto passare il Natale con noi, con la sua famiglia, la presi alla sprovvista. Naturalmente avevo prima chiesto il permesso al suo dottore, il quale mi aveva assicurato che le sue condizioni erano stabili. Certo, un tale tuffo nel passato avrebbe potuto scatenare in lei emozioni travolgenti, eppure – insisteva il medico – «sembra reagire incredibilmente bene alle tue visite.»
Così, come dicevo, la riportai a casa il 23 Dicembre del 2006. Mio padre la guardò a lungo prima di farla entrare e poi, senza proferir parola, si fece da parte. Le feci strada dentro l'appartamento, ma non ce n'era bisogno: ricordava tutto alla perfezione.
Mio padre intanto restava lì, immobile, a guardare le nostre due figure aggirarsi per la casa come se fosse infestata. «Anna.» La chiamò poi lui, più come se stesse invocando un fantasma che una persona vera.
Non le diedi il tempo di rispondere che intervenni, ricordando le parole del dottore. «Papà, non oggi.» Poi, più a bassa voce. «Non è ancora pronta.»
Sembrò pensarci un attimo poi, rassegnato, annuì. Le si avvicinò con cautela, come se fosse una bomba ad orologeria. Poi, «quanto resterai con noi, Anna?»
«Fino a Natale, se posso. Dopo Matteo mi riporterà a casa.» Disse guardandomi, mentre avvertivo una leggera fitta al cuore al pensiero che associasse quell'istituto alla sua casa. Un passo alla volta, pensai, un passo alla volta.
«Ma ancora non avete fatto l'albero?» Sembrò molto delusa nel constatare che, effettivamente, non c'era segno di decorazioni natalizie in quel salotto: nonna si affaticava troppo a tirarle su e papà aveva sempre da fare.
«Vado a prenderlo.» Propose mio padre, prima ancora che avessi il tempo di offrirmi io. Tornò su dalla cantina con enormi scatoloni ripieni di palle, festoni, ghirlande.
Passammo l'intera serata a decorare la casa, con le canzoni di Natale di sottofondo e l'odore di sfincione nel forno. Guardavo i miei genitori sfiorarsi le dita e sorridere, parlarsi e abbassare lo sguardo imbarazzati: certo, era una scena ben lontana dai felici ricordi d'infanzia che avevo di noi tre a decorare l'albero, eppure mi bastava a scaldarmi il cuore.
E' questa la sensazione che si prova quando si prende in mano la propria vita?

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Fase Zero
RomantizmPROMPT: "Lavori in un cantiere e, mentre scavi una buca per costruire un nuovo palazzo, ti imbatti in un'insolita scatola che contiene al suo interno cinque specifici oggetti accompagnati da un biglietto: - Quando trovi questa scatola, chiamami. Qu...