Stupidi pensieri

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I colori delle campagne e del sole al tramonto schizzavano da una parte all'altra del mio finestrino, tanto da non riuscirne a distinguere i contorni. Seduto davanti a me avevo un uomo pelato sulla cinquantina, accanto una signora dal berretto viola che non appena aveva cercato di fare conversazione avevo liquidato con un ampio sorriso e un paio di cuffiette; ora Debussy accompagnava quei colori senza forma, mentre sfogliavo le pagine scritte e consumate del libro tedesco che avevo trovato nella scatola di latta.

«Perché non possiamo stare insieme?»

Per quanto cercassi di distrarmi con il mistero della scatola, le parole di Giulia, sussurrate con quella sua voce delicata, continuavano a ripetersi nella mia mente; persino sovrastando Debussy.

La verità è che stare con lei non mi era mai sembrata veramente un'opzione concreta: ogni qual volta che quell'idea mi sfiorava la mente la scacciavo via, come se fosse un capriccio insensato, qualcosa di irrealizzabile, qualcosa che non volevo veramente. Un po' come quando desideri che qualcosa nella tua vita vada storto, così, per il gusto di volerne provare la sensazione, e poi ti rimangi subito tutto, nella speranza che qualcuno lassù non ti abbia sentito e non ti voglia far pagare per quegli stupidi pensieri.

Stare con Giulia era sempre stato uno stupido pensiero.

Ma perché? Ero un lupo solitario, continuavo a ripetermi. Non sarei riuscito a renderla felice. Non sarei riuscito a rinunciare alle mie altre mille scappatelle, non sarei riuscito a condividere, a servirla, ad amarla come meritava. O erano solo scuse?

La mia mente tornò a quegli ultimi giorni passati al paese; sì, a quel venerdì sera sulla spiaggia con Giulia, ma anche alla domenica mattina – il momento della risoluzione – in cui avevo aspettato per tre ore mio padre nello studio, finalmente deciso a chiedergli di mia madre. Nonostante i diciassette messaggi e le quattro chiamate senza risposta, lui non si era presentato.

Nonna mi aveva accompagnato alla stazione quello stesso pomeriggio ed io ero partito, con due donne in meno nella mia vita. Mia madre non c'era mai stata, effettivamente, ma quella piccola speranza che potesse in qualche modo essere collegata alla scatola per biscotti – beh, mi aveva dato alla testa, illudendomi che parlare con mio padre avrebbe significato poterla riabbracciare.

Scuotevo la testa amareggiato, deluso da me stesso. E intanto continuavo a sfogliare quel libro in tedesco, come se davvero ci capissi qualcosa. Solo arrivato a pagina 102 – quella della registrazione – mi soffermai, riguardando il testo sottolineato; era l'unica pagina in cui non c'era nessun appunto scritto a mano. Vi passai sopra le dita, analizzai ogni singola parola. Non ne capivo nulla, ma lo feci lo stesso. Quando ne fui stanco – e arrabbiato – feci come per andare oltre, accorgendomi solo dopo che l'angolo di quella pagina, come molti altri, era stato piegato. Lo distesi, notando con molto stupore che sotto vi era segnato un numero telefonico. Rimasi col fiato sospeso per qualche secondo. Era forse questo quello che avrei dovuto cercare a pagina 102?

Ancora una volta, fui indeciso sul da farsi. Al paese non avevo trovato le risposte che volevo, anzi, e non volevo che il mio inconscio si illudesse che quello fosse qualche strano gioco organizzato da mia madre per comunicare per me: era davvero così pazza?

Afferrai il cellulare, guardandomi attorno; volevo davvero fare quella chiamata sul vagone di un treno? Non volevo aspettare la prossima domenica mattina?

Digitai i numeri e, senza pensarci troppo a fondo, chiamai.

Fase ZeroWhere stories live. Discover now