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Ⅲ Joue la chanson de la tristesse sous la tombée de la nuit sans fin de Janvier
Eravamo due conoscenti, e Nymphe mi amava.
Il bar era caldo e accogliente rispetto all'aria fredda e al cielo abbracciato dal crepuscolo senza fine di gennaio che avvolgeva la lavanda e il mare della Provenza. Il sidro era caldo e dolce, la consapevolezza di aver appena finito il turno e potersi ubriacare era ancora più dolce. Seduti a quei tavoli troppo piccoli e stretti per noi, io e i miei compari bevevamo ognuno qualcosa, fumavamo ognuno una sigaretta diversa – io l'avevo quasi finita – e c'era Nymphe, le gambe accavallate sotto un tavolo lontano dal nostro e nascosto un po' e lo sguardo perso, mentre scriveva qualcosa. A volte alzava lo sguardo, incontrava il mio e mi sorrideva, felice, con le guance rosse, innamorate come lei. Il sidro e l'aria del bar erano caldi, ma lo sguardo e il sorriso di lei lo erano molto di più; stava per molto tempo con lo sguardo perso verso la sua tazza, un sorriso si palesava sul volto arrossato e le gonfiava le guance, e così riprendeva a scrivere – e in fondo mi chiedevo cosa le passasse per la testa, in quegli istanti di isolamento dal resto.
E chi avrebbe potuto dire da quanto conoscevo Nymphe? Bisogna dire che la conoscevo dai primordi della vita, che la conoscevo dall'origine della luce e del verbo, che la conoscevo ancor prima che l'universo esplodesse e ci creasse. Io e Nymphe ci conoscevamo prima che la lavanda nascesse in Provenza, prima che il mare occupasse la Costa azzurra; la conoscevo da prima che le stelle posassero su di noi lo sguardo. E, prima d'ogni storia, Nymphe mi amava e lo aveva capito. Bisogna dire che la stanchezza n'era nulla che impedisse ai nostri sguardi di incontrarci: e Nymphe, con quei suoi occhi profondi mi guardava, sorrideva e riprendeva a scrivere. Io socchiudevo appena gli occhi, ebbro di quella visione, i miei compari si alzavano, ammaliati dalle ragazze sedute agli altri tavoli, pronti a ballare – ancora non avevo imparato che la Provenza era la terra dell'Amore -; allora prendevo tutto ciò che avevo e mi sedevo al tavolo di Nymphe, spalla contro spalla, fianco contro fianco. Io la salutavo, come mio solito, e lei arrossiva – come suo solito. Mi chiedeva se andassi a ballare, e io rispondevo di no; allora si guardava attorno, gli occhi attenti, le labbra serrate; tornava con lo sguardo ai suoi fogli colmi di parole, e sotto al tavolo mi stringeva la mano. Io gliela stringevo più forte, e lei proseguiva a scrivere, silenziosa e amabile.
Bisogna dire che la sua pelle era candida come la Basilica del Sacro Cuore, e che la sua mano fredda come l'inverno da cui cercavamo di proteggerci in quel bar. Bisogna dire che amava la camomilla quanto amava il miele, e che una macchia la trovavi sempre su di quei fogli. Bisogna dire che Nymphe era bella come una sirena ed innamorata come d'un fiore in primavera; che m'amava tanto che tratteneva il pianto in gola e continuava a scrivere in silenzio. Bisogna dire che imparavamo ad ascoltare e ad attendere; bisogna dire che però non imparavamo mai a diffidare d'ogni cosa. E come potevamo impararlo? Nymphe così persa nel suo Dolore, nelle sue parole, nel suo amore tanto da non comprendere quanto quell'inverno fosse freddo. E come potevo io? Troppo impegnato a stringerle la mano sotto quel tavolo e guardarla scrivere, troppo impegnato a percepire il suo profumo di girasoli e camomille, troppo a guardare la sua mano intrisa d'inchiostro. Il crepuscolo quel giorno sembrava non finire mai, quel passaggio lieve tra tramonto e notte in cui già si scorgeva qualche stella sembrava essersi fermato; il cielo cobalto, come la tazza di Nymphe, ravvivava quell'inverno così grigio e freddo.
Bisogna dire che a Nymphe, però, non importava: la sensazione di essere così vicini e incapaci di fare qualcosa, ci rendeva inesperti e bambini; allora restavamo lì, seduti, a tenerci la mano senza parlare. Bisogna dire che io, a Dio, non credevo più da tanto eppure, mentre mi sussurrava "Un jour, peut-être, Dieu nous pardonnera" io un po' ci avevo creduto. Bisogna dire che eravamo gli unici due rimasti seduti ad un tavolo, troppo impegnati a imparare tutto, tranne che a diffidare d'ogni cosa. E quella sera, durante quel crepuscolo infinito, Nymphe mi aveva afferrato la camicia e aveva fatto piegare il mio viso verso lei; e ignaro del suo non volere un bacio, ero arrossito per l'imbarazzo del mio gesto avventato; poi sbiancato, alle parole della giovane ragazza.
Bisogna dire che la tristezza non conosce tempo né spazio, ché il crepuscolo la descrive meglio, e che in fondo ce ne andiamo per dimenticarci della tristezza. Eppure, m'avevano detto che la Provenza era la terra dell'Amore. Ed ecco, le labbra di Nymphe si offrivano alle mie e ne prendevano, avide, un tenero bacio. E se quei muri sapessero ricordare, saprebbero quanti balli avrei chiesto in concessione alla mia Nymphe; ma non ci serviva imparare, così buio quel crepuscolo, io col ventre scaldato dal sidro e Nymphe, le guance accese dall'Amore, stretta alle mie braccia.