Cap. 2
La cosa più odiosa è quando cerchi di suonare qualcosa che però non ti riesce. Ero davvero tanto orgoglioso e se qualcosa con la chitarra, che fosse un assolo, o che so io, non mi veniva bene, andavo su tutte le furie. Ma cavolo, perché non mi dovevano riuscire?! Non potevo semplicemente suonarlo bene e basta?! No, ovviamente sarebbe stato troppo semplice, come se la mia vita non fosse già piuttosto complicata.
Alzai gli occhi verso il grande orologio. Le lancette indicavano le quindici e cinquanta. Poi abbassai gli occhi verso la custodia dello strumento, dove tecnicamente le persone avrebbero dovuto lascarmi qualcosa per poter mangiare. Nulla. Bene, non sarebbe potuto andare meglio.
Riprovai un altro trilione di volte quel pezzo, che continuava a non riuscirmi. Rialzai gli occhi verso l’orologio, ma qualcosa mi copriva la visuale, o meglio, qualcuno.
“Ciao”, mi fece lo sconosciuto. E adesso che cazzo voleva questo?
“Ciao”, risposi io. “Che vuoi?” Veramente non volevo essere così scortese, anche perché lo sconosciuto sarebbe potuto essere la fonte per la mia cena, e solo uno stupido avrebbe mandato via chi ti avrebbe salvato dalla fame, ma quel giorno ero nervoso.
“Suoni?” mi domandò indicando la mia amata chitarra.
“Ehm, sì.” Forse non era abbastanza ovvio.
Lo sconosciuto si frugò nelle tasche per qualche secondo, tirò fuori dai jeans una banconota tutta stropicciata da cinque e la lasciò cadere dentro la mia custodia. “Mi fai sentire qualcosa?”
Io rimasi per un momento imbambolato, poi borbottai qualcosa d’incomprensibile e cominciai a suonare un pezzo che avevo composto io durante la notte. Non era un granché, e mentre lo scrivevo mi era sembrato migliore, ma tutto sommato non era male. Non avevo ancora le parole e non sapevo se ce ne sarebbero state, ma eseguii comunque il pezzo.
Ci misi tutto il mio impegno per eseguirlo alla perfezione, mi dispiacque pure quando finì.
Alzai lo sguardo verso lo sconosciuto per vedere la sua reazione, sembrava stupito.
“Quelli col tuo talento non dovrebbero stare a suonare nei sottopassaggi delle stazioni” commentò.
“Forse” sussurrai, ma lui parve sentirmi.
Si voltò per guardare l’orologio gigante come avevo fatto poco prima anch’io. Erano le quattro precise.
“Domani tornerò, alla stessa ora” annunciò. “E voglio sentire un’altra canzone, mi raccomando.” Mi sorrise e poi riprese la strada.
Non avevo la minima idea di come sentirmi. Era la prima persona che mi prendeva seriamente in considerazione. Insomma, anche la ragazzina era sempre pronta a sorridermi e a sentirmi suonare qualcosa, ma era diverso, lo sentivo che non era la stessa cosa. E non intendo solo per il fatto che mi aveva dato anche dei soldi, quello non c’entrava nulla, era stato il suo atteggiamento in generale che mi aveva colpito. Lui era come me, era diverso. Non so in cosa e perché, ma volevo scoprirlo.
Dopo essermi comprato qualcosa da mangiare con i soldi che mi aveva dato lo sconosciuto, rimasi quasi tutta la notte sveglio a scrivere un nuovo pezzo. Visto che mi era avanzato qualcosa dal panino che avevo acquistato, mi comprai un quaderno e una penna, non potevo continuare a fare tutto a mente, alla fine mi sarei scordato qualcosa che poteva essere buono. Finii che erano le quattro di mattina. Avevo dodici ore esatte per riposarmi un po’ e per ripassare la canzone che avrei dovuto far sentire allo sconosciuto.
Dormicchiai un po’, e subito dopo essermi svegliato, ripassai talmente tante volte quella cazzo di canzone che non avevo nemmeno bisogno di pensare, l’avrei potuta suonare mentre dormivo senza accorgermene.
C’erano anche le parole, non sapevo se il testo fosse bello, ma ci avevo messo tutto me stesso, tutta la mia rabbia, la mia tristezza, la frustrazione e anche un po’ di gioia, quella gioia che mi aveva dato lo sconosciuto capendomi. Sì, perché lui mi aveva capito. Non solo mi aveva preso in considerazione, ma mi aveva capito. Perché come avevo già realizzato, lui era come me, e le persone simili si comprendono, è ovvio, non ci vuole un genio per capirlo.
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My way home is through you
Romance"Parliamoci chiaro, ero un barbone, quello ero, niente di più e niente di meno, ma lui non se ne era preoccupato tanto, non si era fermato a quello che sembravo, ma si era soffermato su quello che ero veramente. [...] Eravamo così simili eppure irri...