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Cap.10

Finalmente lunedì era arrivato. Il fine settimana dai miei era stato piuttosto noioso, come sempre, ma non avevo raccontato loro nulla dei miei ultimi giorni, non avrebbero approvato.
Il lunedì mattina al lavoro ero stato completamente distratto e quando fu l’ora di uscire andai di corsa alla stazione, presi il treno e aspettai con ansia di arrivare a destinazione.
Quando una voce femminile annunciò che ero arrivato, mi fiondai alle porte e corsi verso il sottopassaggio.
Non mi ero pentito nemmeno per un secondo di aver chiesto a Frank di venire ad abitare da me: era la cosa giusta da fare, lui non poteva stare per sempre in quello schifo e io avevo bisogno della sua presenza in casa mia.
Mentre correvo diedi un’occhiata all’orologio gigante. Erano le quattro esatte. Perfetto!
Arrivai all’angolino in cui stava sempre Frank, ma con mia grande sorpresa non lo trovai, nemmeno la sua roba era lì. Mi guardai intorno per vedere se per caso mi stesse aspettando a sedere da qualche altra parte, ma niente.
Notai uno strano vecchio seduto sotto l’orologio, e mi avvicinai per chiedere informazioni.
“Scusi” feci, “sa per caso dove è il ragazzo che suona sempre la chitarra in quell’angolo là?”
L’uomo alzò la testa. “Oh, sei tu.”
Mi porse una mano e lo aiutai a rialzarsi. Lui andò a prendere qualcosa da dietro un cestino che minacciava di scoppiare. Lo vidi ricomparire con in mano la chitarra di Frank nella sua custodia. Cosa…?
Mi diede la chitarra e io la presi, incapace di chiedere spiegazioni.
“Voleva che l’avessi tu.” Cosa cazzo era successo?
“Perché?” fu l’unica parola che riuscii a pronunciare.
“Sabato sera due uomini lo hanno aggredito per avere la sua giacca nuova. Frank è riuscito a scappare, ma poi l’hanno seguito, per fargli paura hanno sparato qualche colpo con la pistola, ma sono riusciti a prenderlo. Non ce l’ha fatta.”
Rimasi imbambolato. Frank. Riuscivo solo a pensare a quello.
“Mi dispiace tanto, era un ragazzo fantastico” e così dicendo se ne andò, lasciandomi solo.
Mi misi la chitarra a tracolla e presi a camminare come un robot verso casa.
Aprii la porta con calma, entrai in casa e poggiai delicatamente la chitarra di Frank sul divano.
Mi resi conto in quell’istante preciso di quello che era accaduto.
Scaraventai il tavolino davanti alla televisione verso quest’ultima, che cadde con un tonfo sordo. Poi andai in cucina e con tutta la forza che avevo, presi due sedie e le gettai contro la porta finestra mandando il vetro in frantumi. Aprii anche la credenza con l’intento di distruggere più cose possibile, ma poi lo sguardo mi cadde sul lavello. C’era ancora la tazza da cui aveva bevuto Frank.
Scoppiai a piangere e mi lascia scivolare per terra. Dopo un po’ finii le lacrime e tutto quello che riuscii a fare era singhiozzare, finché la gola non cominciò a bruciarmi.
Trovai la forza per alzarmi.
No, non era possibile che Frank fosse morto, no, non aveva senso. Perché doveva morire lui? Non poteva essere ammazzato quel coglione del mio vicino o la commessa del supermercato? Tutti, ma Frank no! Era la creatura più innocente che avessi mai conosciuto, non meritava di morire! Perché quei bastardi che gli avevano sparato non avevano preso me al suo posto? Io avrei meritato di morire, non lui! Io meritavo di morire! Era tutta colpa mia se Frank era morto! Quei due lo avevano aggredito perché addosso aveva la mia giacca, e io non ero lì a proteggerlo!
Presi dalla credenza un coltello, quelli che di solito si usa per la carne. Poi andai in salotto e dopo aver spostato la chitarra di Frank mi sedetti. Portai il braccio sinistro di fronte a me e vi poggia la lama del coltello. Io dovevo morire, era tutta colpa mia, tutta mia. Non meritavo di continuare a vivere.
Presi un respiro profondo e passai con forza la lama sull’avambraccio. Per un attimo non sentii nulla, poi un bruciore mi attraversò la ferita, rabbrividii e per un attimo il coltello sfuggì al mio controllo e quando guardai, vidi che il taglio era molto più profondo del previsto ed era slabbrato. Bruciava da morire. Me ne procurai un altro sopra il primo e quando il dolore fu insopportabile lasciai cadere per terra il coltello rosso di sangue.
Il mio braccio era completamente rosso e lo stava diventando anche il divano che una volta era verde.
Forse avevo fatto una cazzata, o forse no. Non so se Frank avrebbe approvato questa cosa, ma io mi sentivo vuoto, dentro di me non c’era più nulla, né la tristezza né la rabbia che avevo provato poco prima.
Ricominciai a piangere, e le lacrime si confusero con il sangue sul mio braccio, o forse semplicemente stavo piangendo sangue.
Gettai un’occhiata alla chitarra di Frank e poi presi il telefono che avevo in tasca. Digitai il 911 e aspettai che qualcuno rispondesse. “Pronto, chi parla?” fece una voce dall’altra parte.
“Sono Gerard Way, ho bisogno di un’ambulanza.”
“Va bene, mi dia l’indirizzo.”
Riuscii a borbottare il mio indirizzo fra le lacrime, senza specificare che l’ambulanza era per me.
Rimisi l’apparecchio in tasca e ripresi il coltello da terra. Lo impugnai con la sinistra e distesi per bene il braccio destro. Non ero mancino e avrei sicuramente fatto casino.
Premetti il coltello sulla pelle chiara, questa volta il taglio lo feci per lungo, andando dal polso all’incavo del gomito. La ferita sembrava un fiume in piena a cui si erano rotti gli argini, ma invece di acqua c’era solo tanto sangue.
Abbandonai la testa allo schienale e aspettai. Avevo chiamato l’ambulanza, ma cercavo ancora di capire se volevo che arrivasse in tempo o no. Forse era già troppo tardi.
Sentivo che di lì a poco avrei perso i sensi.
Pensai a Frank. Era l’unica cosa a cui riuscivo a pensare, alle sue labbra morbide, al suo viso perfetto.
Chiusi gli occhi e prima di svenire riuscii a pronunciare due ultime parole, rivolte e a Frank.
“Ti amo.” 

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