Cap. 7
“Non sono nato in questa città, ma non molto lontano da qui. Vivevo con i miei, stavamo bene, non ci lamentavamo. Fin dall’asilo non ero mai stato un bambino molto loquace. Non avevo amici, e giocavo sempre da solo, la maggior parte delle volte stavo seduto e mi concentravo su qualche dettaglio inutile, come il legno colorato delle panchine, o cose così. Anche a scuola stavo sempre da solo, al liceo ancora peggio. Mi prendevano in giro tutti, certe volte mi hanno anche picchiato, oppure mi chiudevano dentro gli armadietti, anche perché c’entravo.” sorrisi. “Ho sempre odiato andare a scuola, mi sentivo al sicuro solo durante le lezioni: nessuno mi poteva picchiare e dare fastidio quando c’erano gli insegnanti, al massimo potevano fare dei commenti idioti, ma ho subito imparato a ignorarli. Quando invece non c’era lezione o durante la pausa pranzo, mi nascondevo nei bagni, per non farmi vedere da nessuno. Se nessuno mi vedeva, nessuno si ricordava di me, e allora potevo stare in pace. Però, se mi vedevano, allora si ricordavano che il piccolo Frank è vivo ed esiste ancora e allora mi prendevano a calci finché non arrivava qualcuno e li fermava oppure finché non riuscivo a scappare, se non ero troppo confuso dalle botte.
“Durante il liceo ho cominciato anche a suonare la chitarra, e poi è diventato il mio passatempo preferito e alla fine uno sfogo. Lo è tutt’ora. A sedici anni ho scoperto che mia mamma aveva il cancro. Mi ricordo ancora il giorno in cui me lo disse. Ero appena tornato da scuola, e non mi avevano picchiato quel giorno, quindi ero piuttosto felice. Andai in cucina a salutarla, ma piangeva. Non l’avevo mai vista piangere, mai in tutta la mia vita. Le chiesi cosa aveva e mi abbracciò. Lei era tutto per me, mio padre non mi capiva e non parlavamo quasi mai, ma mia mamma era la mia vita. Fra le lacrime mi disse che aveva una forma incurabile di cancro.
“Mi sembrava assurdo. Non potevo credere che fosse vero, è davvero difficile immaginare che i nostri genitori muoiano, è una cosa che il cervello non riesce a elaborare, e poi avevo sedici anni, ed ero un ragazzino insicuro, con mille problemi. Non ce l’avrei mai fatta senza di lei. Da quel giorno mi chiusi in camera mia e smisi anche di andare a scuola. Stavo dalla mattina alla sera a guardare fuori dalla finestra, e se ne avevo voglia, suonavo la chitarra. Mia madre stava sempre in ospedale e mio padre con lei. “Praticamente si dimenticarono della mia esistenza, e io facevo quello che volevo. Un anno dopo morì. Non andai al funerale, ci sarei stato troppo male, non versai nemmeno una lacrima, sono inutili e non servono a far tornare indietro le persone. Ero diventato una specie di vegetale, non facevo più nulla che non fosse andare in bagno e mangiare qualcosa per sopravvivere. Vivere con mio padre era un incubo. Ricomincia la scuola, anche se avevo perso quasi un anno. Dopo il liceo decisi di non continuare a studiare, mia madre avrebbe voluto, e forse anche io, ma lei non era lì con me, e non aveva senso fare nulla senza di lei. Così vagavo tutto il giorno per la città senza una meta, oppure stavo in casa, suonavo la chitarra e ascoltavo la musica così alta da diventare quasi sordo.
“Un giorno, durante la cena, mio padre mi disse che dovevo trovare un lavoro, ma io non volevo, mi andava bene vivere in quella maniera, alla giornata, e poi c’era lui che mi dava da magiare e un letto per dormire e a me bastava. Litigammo, e alla fine mi disse che se non avevo intenzione di fare nulla potevo anche andare a ‘fanculo. E più o meno è quello che feci. Preparai le valige con le poche cose che avevo e andai via di casa. E’ successo un anno fa. Sono venuto qua e ho cominciato a suonare la mia chitarra in quel sottopassaggio, vivo di elemosina, ma non mi vergogno, è la mia vita, non ci si dovrebbe vergognare della propria vita.”
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My way home is through you
Romance"Parliamoci chiaro, ero un barbone, quello ero, niente di più e niente di meno, ma lui non se ne era preoccupato tanto, non si era fermato a quello che sembravo, ma si era soffermato su quello che ero veramente. [...] Eravamo così simili eppure irri...