Durante il mio secondo anno alle medie, il mio professore di educazione musicale mi fece venire un'improvvisa voglia di imparare a suonare uno strumento. Non ero tipo da strumenti a fiato, troppo studio e troppa fatica, ma caso volle che non esistessero solo quelli. Fu così che un pomeriggio, dopo aver annunciato ai miei entusiasti genitori la mia idea, accompagnai una mia compagna di classe alla scuola di musica gestita dalla banda del paese. Il maestro e la sua vice furono felicissimi di accogliermi, ancor più felici del fatto che avessi deciso di suonare le percussioni.
Nella mia mente da giovane rockettara, suonare la batteria avrebbe rappresentato l’apice della soddisfazione personale. Il passo dopo sarebbe stata la chitarra, poi avrei allenato la voce e sarei diventata la nuova Avril Lavigne, mio idolo indiscusso.Non mi ci volle molto per capire che non fossi portata per la musica, la grinta e la carica iniziali scomparvero ancor prima che potessi pensare “Maledetta pigrizia”. Nonostante tutto, proseguii gli studi e nel giro di sei mesi nemmeno, mi ritrovai a sfilare in banda con una sorta di tamburo improvvisato.
Qualche tempo dopo, diventai una delle poche percussioniste a sfilare con una grancassa sulle spalle, ma solo perché il tizio che suonava quell’ingombro aveva deciso di non volersene più occupare.
Sarò sincera, mi piaceva anche se alla fine del mio percorso non ero nemmeno capace a fare un rullo decente. L’ambiente mi divertiva, mi rilassava e provavo simpatia per gran parte dei componenti. Avevo stretto nuove amicizie, rivalutato persone che credevo antipatiche e tutto sommato era anche un buon modo per fare esercizio fisico.Anni dopo, nel mio periodo di disintossicazione dal genere maschile, venne annunciato un concerto in un paese vicino, in cui avremmo suonato con l’altra banda che dirigeva il nostro maestro. Una cosetta semplice, al termine della quale avremmo cenato tutti insieme. Non mi curai nemmeno di “acchittarmi” per l’occasione, giusto un filo di trucco, vestito semi-elegante per il concerto e qualcosa di comodo per il dopo.
A concerto finito, mi apprestai a rimettere le mie amate bacchette in ordine e fu lì che lo notai: a pochi passi da me, uno dei trombonisti dell’altra banda stava smontando il suo strumento, tenendo gli occhi posati su di me. Diventò rosso non appena lo guardai a mia volta, facendomi sorridere per l’imbarazzo, senza dare alcun peso alla cosa.Durante la cena, mi resi conto delle risatine e delle battute di alcuni dei membri più anziani della banda, finché uno dei miei più stretti “compagni di fanfara” si avvicinò a me e disse di dovermi parlare. Incuriosita da tutta quella segretezza, mi allontanai con lui.
– Dammi il telefono. – disse con un tono autoritario. Di norma lo avrei mandato a quel paese, quella volta però la curiosità ebbe la meglio. Lo vidi scrivere velocemente un numero e salvarlo nella mia rubrica. Prima che potessi fare domande, mi fissò ancora serio: – Questo è il numero di Leonardo, è un bravo ragazzo e gli piaci. Ogni tanto scrivigli e sappi che controllerò il telefono ogni volta che avremo le prove. Se lo cancelli lo riscriverò. –. Scoppiai a ridere per l’assurdità. Come poteva quello scemo aspettarsi che dopo il mio trascorso andassi a scrivere a un tizio che per altro non ricordavo come fosse fatto? Avevo presente solo la sua faccia da peperone e lo sguardo che velocemente si abbassava per non incontrare il mio. Gli dissi che non avrei cancellato il numero, ma che comunque non gli avrei scritto.Dopo quella sera, mi ritrovai con il mio amico, Giovanni, ad assillarmi ogni volta ci incontrassimo con “Scrivigli, scrivigli che ti costa? Dai, scrivigli, scrivigli, scrivigli!”, il maestro che non smetteva di parlare di quanto quel ragazzo fosse rimasto ammaliato da me, la vice che mi spingeva a partecipare a concerti dell’altra banda e tutti gli altri che si facevano grasse risate a riguardo.
Stufa della situazione che mi procurava più imbarazzo che piacere, decisi di scrivergli quel maledetto messaggio, inventandomi un fantomatico fidanzato gelosissimo e supplicandolo di non contattarmi. La sua risposta fu fulminea: si scusò con me e mi promise che non mi avrebbe più cercata. Soddisfatta di essermi liberata di quel peso, proseguii la mia vita e il resto dell’estate in pace.Quello era il mio primo anno di superiori ed ero elettrizzata e spaventata come non mai: non vedevo l’ora di conoscere gente nuova, di iniziare quel percorso di studi nuovo che mi avrebbe portata a realizzare il mio futuro vero, non quello sognato per mesi e mesi, intinto nell’ingenuità di un cuore giovane e voglioso d’amore.
Strinsi fin da subito con un gruppo di ragazze di cui: una - la mia compagna di banco -, fidanzatissima, una che si prendeva sbandate per uno diverso ogni giorno, una indecisa tra due o più ragazzi e l’ultima, la più sobria, pura e casta, che rifiutava anche solo l’idea di un "bacio alla francese". Avrei dovuto dar retta a quest’ultima, ma non mi piaceva sentirmi messa da parte nelle discussioni sui ragazzi. Per questo, una mattinata particolarmente noiosa, all’ora di matematica - comunemente detta “zoo” - presi in mano il cellulare e scrissi a Leonardo. Avevo la possibilità di raccontare le mie vicende amorose, quindi perché non farlo?
Lui non rispose subito, iniziò a scrivermi nel pomeriggio ed è così che cominciò un’incessante chiacchierata e un patrimonio speso in ricariche telefoniche.Parlavamo di ogni cosa, sembrava sinceramente interessato a qualsiasi stupidaggine mi riguardasse e, sebbene fossi stata molto diffidente all’inizio, riuscii a superare l’ostacolo e dargli confidenza. Mi riempiva di complimenti per i miei ragionamenti a suo dire maturi, mi faceva sentire speciale, mi dava attenzioni che nessuno prima di lui mi aveva riservato. E quello che doveva essere il mio inserimento nel gruppo, diventò il mio primo pensiero al mattino e l’ultimo prima di addormentarmi.
Passarono due mesi di messaggi prima che avessimo la possibilità di vederci. Era novembre e assieme alla banda avremmo tenuto un concerto in onore di Santa Cecilia, patrona dei musicanti, e il maestro aveva deciso di invitare anche la sua altra banda.
Eravamo entrambi eccitati dall’idea di rivederci, lui molto più di me. Diciamo che una parte di me era ancora molto scettica nei suoi confronti e non voleva lasciarsi andare del tutto. L’altra però era del tutto impazzita di gioia al solo pensiero di vederlo.
Quella mattina mi svegliai all’alba per prepararmi e rendermi presentabile. Lo vidi entrare dalla porta della scuola di musica e mi resi conto di quanto fosse carino. E alto.
Eravamo tutti e due impacciati e imbarazzati, ma il suo sorriso faceva sorridere me e lo considerai positivo. Passammo del tempo insieme prima del concerto, sedendoci su una panchina. Era tutto così strano, l’imbarazzo sembrava non volersene andare. Alzai lo sguardo al cielo con fare teatrale per attirare la sua attenzione e notai un aereo che passava. In quel periodo, era solito tra noi ragazze fare un giochino stupido che però richiamava l’esprimere un desiderio di fronte a una stella cadente, che consisteva nel pensare alla persona “speciale” e dire “Mi ama, mi pensa, mi scrive”. Ero così assorta da non essermi resa conto di averlo pronunciato, quando lui mi disse il modello di quell’aereo. Avrei voluto fulminarlo con uno dei miei sguardi scettici, ma quando i miei occhi si posarono sui suoi non capii più nulla. Persi completamente il senso del tempo e dello spazio, fui io a essere fulminata da quegli occhi e avvertii un misto di piacevole ansia nello stomaco.
Mi ci volle qualche tempo e moltissime paranoie prima di riuscire ad ammetterlo: mi ero innamorata, senza "se" e senza "ma" e stavolta era successo davvero.