Nascondino

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Lui. Pochi ricordi. Pensava. Troppi pochi ricordi per così tanta vita.

Ogni tanto provava a contare i suoi anni ma, cullato da quella cantilena, si addormentava.

Il tempo distruggeva il suo corpo come il vento sugli alberi d'autunno...portava via speranze e sogni come foglie secche e rassegnate.

Un'altalena rotta ed arrugginita le sue articolazioni.

Crosta di pane secco il suo volto.

Occhi grigi e labbra bianche.

Se fosse stato un colore sarebbe stato il marrone.

Portava in giro le sue ossa come un burattinaio fa con una marionetta.

Aveva due motivi per rimanere in vita, ma uno l'aveva dimenticato e l'altro non l'avrebbe confessato mai.

Tornava con la mente al passato. Si cercava bambino ma non si trovava.

Giocava a nascondino.

Un gelato e una bicicletta. Non erano suoi. Cosa gli è rimasto? Dove era stato?

Era un sasso bagnato dalla pioggia. Un libro comprato e non letto. Una lettera persa.

Solo ogni tanto compariva qualche immagine che sentiva appartenergli.

Il grembiule di sua madre.

Il male di quella ferita al ginocchio. Quel male un po' più in fondo.

Il primo treno, il primo sparo...

Ma passa un istante e tutto è svanito... come il negativo di una fotografia al sole.

Rimane solo un vecchio e i suoi ricordi. Troppi ricordi per così poca memoria...

Lei. Dormiva come una bambina. Le ginocchia chiuse vicino al petto, le mani raccolte e strette a tenersi per non perdersi nella notte. Le rughe del viso si confondevano con le pieghe della coperta di lana cotta vecchia e rovinata. I capelli di mille sfumature di grigio sembravano vibrare in aria leggeri come i fili di una ragnatela. Era impossibile tenerli a posto in quel chignon fatto da dita ormai stanche e indurite dall'artrite.

Cosi vecchia. Così ferma. Solo piccoli movimenti sotto le palpebre. Cos'erano? Sogni?

Bastava spostarsi oltre tutto quel tempo assorbito da un corpo ormai stanco per ritrovarsi in un mondo totalmente diverso.

Era di nuovo la ballerina di danza che riusciva a rimanere sulle punta dei piedi per l'intero saggio di fine anno.

Era la bambina che si perdeva fra le gambe, sotto al tavolo, durante la cena della vigilia di Natale.

Era la ragazza che correva lungo il viale selciato per andare ad abbracciare il fidanzato che ritornava dalla guerra in Germania.

Era un bagno fresco al mare d'estate.

Una spremuta di arance rosse.

L'ombra in una giornata di sole.

Era la donna desiderata. La moglie adorata.

Era un litigio per gelosia. Era una voglia e poi passione.

Era fra le lettere di una poesia.

Era fra le foto da buttare via.

Era qualcosa che ancora importava.

Ma passa un istante e tutto è svanito... come il negativo di una fotografia al sole.

Di giorno si svegliava. Le infermiere per i controlli della pressione. Qualche domanda senza risposta. La sedia a rotelle e la finestra leggermente aperta. Se ne stava seduta lì. La tela da ricamo poggiata sulle ginocchia. Il filo svolto dal rocchetto veniva accuratamente inumidito dalle labbra increspate per renderlo appuntito e comodo da inserire nella cruna dell'ago.

Gli occhiali appoggiati sulla punta del naso e i capelli raccolti per non darle fastidio. Una gonna nera con grandi fiori scoloriti. Un orecchino che non c'è più.

Il vecchio dal volto di crosta di pane trascinava le sue radici sul linoleum del corridoio illuminato da strisce di luce che si alternavano con un effetto stroboscopico.

Le porte delle camere da letto degli ospiti erano quasi tutte aperte e poteva guardare dentro. Ad ogni porta dimenticava quella precedente.

Due che giocano a carte.

Uno che legge.

Un altro che piange.

Poi lei.

Poteva vedere la polvere adagiarsi sulla sua esile figura.

"E' bellissima" pensò.

La osservava cucire. Incerto ed instabile sulla cartilagine consumata delle sue ginocchia, entrò nella camera. Qualcosa gli parve strano. Ad ogni movimento dell'ago da una parte all'altra della tela, era come se passassero fra le sue mani fotografie di posti dai contorni indefiniti, volti sorridenti ma senza un nome, una cena in compagnia per un'occasione che non ricordava più, ma anche quel pianto di troppo, quell'addio in quel giorno che non sapeva, quel saluto mancato a qualcuno, forse un'amica, forse un vicino. Ed il disegno sulla tela cambiava continuamente come diapositive in un proiettore malfunzionante.

Non capiva come fosse possibile. Continuò ad avanzare verso quella vecchietta, così piccola e delicata da poter stare sul piattino di un carillon. Solo quando fu abbastanza vicino da distinguere ogni singolo ricamo, abbastanza vicino da vedere ogni passaggio dell'ago che definiva un nuovo contorno, si rese conto che ne andava perso un altro: quello all'altro capo del filo. Aveva dimenticato di fare il nodo alla fine del filo o forse, non l'aveva fatto volutamente. Per continuare a ricamare e ricordare.

Il vecchio dal volto di crosta di pane si trovò a sorridere. Sentì il silenzio dentro al proprio petto rompersi fra un battito e quello dopo. La guardò con dolcezza, con quella infinita compassione che solo la condivisione della consapevolezza può creare e le prese la mano. Le tolse l'ago dalle dita nodose e le disse "per il tempo che questa mia testa bacata mi concederà di ricordarmi il tuo nome io ci sarò. Sarò il punto fermo da cui iniziare."

Unì i capi del filo in un nodo e le rese l'ago.

Lei sentì l'aria tiepida del mattino entrarle dentro. Scrutò quegli occhi che le sembrava di conoscere e lo ringraziò in modo educato e cordiale.

Poi una voce femminile entrò sottile in quell'antico mondo nuovo: "Signori Gregori, le medicine".

Pezzi RottiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora