I

68 9 6
                                    

New York, Lunedì.

Oggi Helen viene a farmi compagnia, ed io vorrei andare al parco verso il tramonto per incontrare il vecchio stronzo.
No non voglio nemmeno vederlo, però sento che ci devo andare. Lo odio già.
In media le persone come me si suicidano attorno i venticinque anni, ma io sono riuscito a condannare la mia eccessiva euforia in una piccola cella; una cella piccola che però mi fa male da morire. Helen è giovane ancora e sinceramente non so come abbia fatto a respirare negli anni prima della sua nascita. Non lo so, forse il cielo ha saputo ogni cosa sin dall'inizio.
Non conto nemmeno i passi per andare ad aprire la porta e vederla lì, la mia regina rondine.
Un sorriso violento e maleducato sgomita contro gli angoli della mia bocca, mentre osservo i suoi capelli neri e gli occhi scuri come la notte. Mi sorride come sempre e già sa che sto per fiondarmi tra le sue braccia esili. Lo sa e non si stupisce quando lo faccio, anzi mi accarezza i capelli facendomi sentire alla fine della mia migrazione.
La meta ancora non la so.
«Ciao Robert, che colore sei oggi?» mi chiede mentre ci sediamo abbracciati per terra, come due fratellini.
Mi ha insegnato che ogni colore mostra uno stato d'animo preciso, ed io posso essere tutti i colori che voglio in base al battito del mio cuore. La stringo di più timoroso, non voglio che mi abbandoni all'improvviso.
«Blu. Sono blu oggi, con te», rispondo incastrando la testa tra la clavicola e il collo, ripercorrendo ogni sfumatura del suo profumo familiare. Improvvisamente non voglio più andare da quel vecchio bastardo e restare insieme alla mia Helen. Per tutto il giorno.
Ella sorride e cancella la felicità dal volto appena nota il muro leggermente rovinato, chinando il capo.
«Non mi sono fatto tanto male, non l'ho fatto apposta te lo giuro».
Le mie suppliche disperate non la smuovono ed il terrore di averla delusa maciulla la mia anima blu, diventando di un colore brutto. Helen posa le mani sulle mie guance e mi guarda permettendomi di capire ogni suo sentimento, non mi nasconde mai nulla. «Non sei solo Robert». Lascia che cammini dentro i suoi occhi per cercare ogni traccia di bugia, ma trovo soltanto verità e tanta bontà nei miei confronti. La abbraccio forte cercando di farle capire che ogni abbraccio è diverso, ma le voglio bene sempre allo stesso modo, come la rondine e il cielo.
Quasi non ho più paura che mi abbandoni.
Non voglio dirle che due giorni fa ho tentato il suicidio quando non mi ha risposto al cellulare, e mi sento un bastardo per nasconderle un sacco di cose. Perché non riesco a farmi aiutare? Ho paura che ci stia male e che perda speranze in me, perché mi sarei dovuto suicidare a venticinque anni quando lei nemmeno era nata.
È terribile parlare di questa tematica, lo capisco, ma tiene tra le grinfie la mia mente ed il mio cielo.
Restiamo insieme per qualche ora finché vedo il mio vecchio amore iniziare a truccarsi leggermente di rosa. Non voglio andare da quel cretino, ma sento delle campane suonare dentro di me, segnalando la mia ora.
Helen segue il mio sguardo e si alza dalle mie gambe, accarezzandomi la testa dopo avermi fatto ingoiare l'inutile medicina. «Ora devo tornare in casa a studiare Freud, quando torni dal parco chiamami okay?» sussurra aiutandomi a vestirmi per uscire, e posso vedere la preghiera che non succeda nulla di grave nei suoi occhi. Sa che quando il cielo mi chiama devo essere da solo.
«Fa il bravo», mormora baciandomi la fronte in punta di piedi, scappando verso i suoi libri. Stringo i pugni nel vuoto della mia casa ed esco.
Accarezzo di tanto in tanto il mio quaderno sgualcito nella tasca, osservo il cielo e sorrido trovandolo buffo truccato di rosa. È lì, nel parco, esattamente dov'era ieri. Mostra dei denti aguzzi e gialli appena mi vede, facendomi sentire un'ira quasi incontenibile. Vorrei prenderlo a pugni fino ad ammazzarlo.
«Allora sei venuto», ghigna, la rabbia monta dentro di me. Cambia all'improvviso espressione facendosi serio, quasi saggio, e ci sediamo sulla panchina più vicina.
Stringo le mani sentendo il tremore ed il fervore della mia ira ribollire come lava, nonostante ora questo bastardo non sia più spavaldo come ieri. La gente spaventata dal mio sguardo affretta il passo.
«Lo vedi? Servo soltanto ad isolarti», commenta l'anziano, osservando la conseguenza della sua presenza.
«Allora perché fai morire un sacco di gente, perché rovini la vita delle persone, perché esisti?!» rispondo con la furia incastrata tra i denti, schifandolo. Egli sospira indicando i confini del parco, e poi la città che ci circonda.
«Perché sono un luogo circoscritto, non mi muovo, ho dei limiti. Posso essere recintato e visitato quando si vuole, e con altrettanta facilità chiunque può uscire da me. Non sono un nemico, sono soltanto un piccolo parco che sfuma dentro una città così grande».
Lo osservo provando tutt'altro che compassione nelle sue lacrime che sgorgano da occhi vuoti e fragili.
«Non è colpa mia se esisti», rispondo freddo, scostandomi leggermente quando cerca di toccarmi. Mi fa schifo.
«Oh invece è tutta colpa tua, perché il cancello non è mai chiuso Robert. Decidi tu se entrare o uscire».
Qualcosa mi spinge a restare fermo su questa panchina con lui, osservando i grattacieli attorno a noi che rendono questo parco una macchietta di un grande dipinto. Il cielo diventa rosso, si arrabbia, e questa volta non posso piangere per la sua punizione. Questa volta devo urlargli contro, devo sgridarlo per tramontare troppo presto.
Il vecchio mi osserva scuotendo la testa, controllando l'orologio.
«Puoi uscire dal cancello quando vuoi, io non mi muovo da qui. Sta a te scegliere». Infastidito lo guardo. Vedo la sua vita breve quanto lunga, ma non riesco a lasciarlo da solo. Fa parte di me, è radicato nella mia mente.
Lo odio, lo odio talmente tanto da incolparlo per ogni male subito, e restiamo seduti su questa panchina fino a mezzanotte.
Torna spavaldo, e si prende gioco di me.
«Potevi uscire, il cancello è sempre aperto», e detto ciò, un volo di rondine mi fa voltare curioso, ma quando mi giro per sputargli in un occhio lui non c'è più. Scalcio fino a sentire la furia scemare lentamente, alzando lo sguardo vedo la finestra della camera di Helen, e lei seduta sul davanzale che studia. Sono di nuovo in pace.
La chiamo e subito riconosce la mia voce, salutandomi aprendo la finestra.
«Hai fatto amicizia con qualcuno?» chiede speranzosa, senza aspettarsi una mia risposta. Tendo le orecchie cercando di sentire ancora quel movimento d'ali attorno a me.
«Una rondine, penso si chiamasse Rabbia».

Robert Morgan Herriot

Portami il cielo in una stanza Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora