Johannah.

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 Capitolo 9

 Johannah.

Era sveglio da quasi un’ora; non riusciva a prendere sonno e quel divano era più scomodo di una pietra.

L’unica cosa che ricordava era Harry che gli diceva di dormire e che sarebbe passato verso le nove per portargli la colazione, come se sarebbe servito a qualcosa dirglielo. Si alzò sbuffando dal divano e si chiuse la felpa sul davanti, recuperò anche il cellulare e altre sue cose per poi avvicinarsi barcollante alla porta scorrevole che divideva un lungo corridoio dal salotto.

Cercò di fare il meno rumore possibile e assicurandosi che non ci fosse nessuno uscì dall’abitazione fregandosene altamente delle ragazze che dormivano di sopra.

Non riusciva a stare tranquillo tra quelle mura, e il perché non sapeva spiegarselo neanche lui.

C’era solo un posto che poteva dargli tale calma quanto potesse essere la frustrazione, ma ne aveva bisogno…doveva sentirsi libero di stare da solo. Con tutta la forza di cui disponeva camminò appigliandosi a tutto per circa venti minuti, mentre vari pensieri gli passavano per la testa, pensieri che non badava da un paio di giorni.

Ed ora eccola lì, proprio davanti a se: il dondolo senza cuscini, una panchina mezza rotta che si affacciava su un giardino che di verde non aveva niente, eccola lì, nella zona più malfamata della città, eccola lì: casa Malik.

Gli si avvicinò lentamente, mentre la vista si appannava, forse dalla stanchezza, forse dalle lacrime.

Arrivò all’uscio della porta e con la mano sulla maniglia tirò un lungo sospiro; la girò verso destra. Era aperta, totalmente libera al passaggio di chiunque, togliendo il disturbo di bussare a coloro che ci volessero entrare, ignorando i ladri o stronzi simili. Ma chi cazzo poteva volerci entrare? Chi avrebbe mai avuto il coraggio di affrontare quello che si nascondeva tra quelle mura? Chi?

Aprì la porta entrando al suo interno, assaporando l’aria calda e afosa che lo accolse. Il fuoco era scoppiettante, molte sigarette erano ancora accese nel posacenere del tavolino e il forno era acceso, senza contenere nulla al suo interno.

Odore di sesso impresso nelle pareti, odore di fumo, sapore di rabbia.

Si diresse con difficoltà verso camera sua, al piano superiore, ignorando la stretta allo stomaco che lo colpì quando posò lo sguardo su una porta in particolare.

Quellafottuta porta.

Salì lentamente le scale, trovandosi davanti il solito corridoio lungo, vuoto e freddo. Si fermò davanti ad una stanza, con la porta completamente spalancata e la visione di suo padre accompagnato da un’elegante puttanella al suo fianco lo deliziò in una maniera assurda.

Lo deliziò d’odio, lo deliziò di sconforto.

Ghignò schifato voltandosi verso la stanza opposta e sorrise.

La porta bianca era priva di graffi o macchie, su di essa spiccavano solo una zeta di legno e al suo fianco un adesivo di Superman; aveva sempre amato quel super eroe.

Spinse la maniglia verso il basso ed entrò chiudendo gli occhi. Lo accolse un’atmosfera stranamente calda, che lo sorprese più del solito.

La stanza era rimasta esattamente come l’aveva lasciata l’ultima volta tranne per una stufetta elettronica messa all’angolo, di fianco al minuscolo frigorifero che aveva comprato tre anni fa. Immaginò immediatamente sua madre in vestaglia con i capelli sciolti e l’aria malata che entrava in stanza e accedeva la stufa alle sei del mattino, lo faceva ogni volta che non lo vedeva rincasare.

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