Autodistruzione

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Sole, troppo caldo.

Aria, troppo flebile.

Luce, troppo forte.

Cerco di concentrarmi sulla strada che sto percorrendo, ma gli impulsi della città intorno a me mi distraggono, attirano e intrappolano la mia già scarsa attenzione, mi fanno perdere il filo dei pensieri.

Mi fermo a un incrocio, aggrotto le sopracciglia nel tentativo di capire dove mi trovo, e infine riprendo a camminare. Non manca molto, e il mio cuore prende a battere un po' più velocemente. Questo è sintomo di ansia, agitazione, ma dopotutto non mi dispiace: quantomeno è la prova inequivocabile che ho un cuore.

Sono viva, i miei segni vitali lo testimoniano, il fatto che cammino, parlo, respiro, ne sono una prova, ma non mi sento tale. Non mi sento nulla. Non mi sento e basta.

Eccola, la mia meta. Controllo un'ultima volta l'indirizzo e il nome sul foglietto che stringo nel pugno, quasi fosse un'àncora di salvezza, quasi potesse essere la chiave della mia sanità, infine spingo il grande cancello di ferro battuto ed entro.

È deserto, come mi aspettavo, ma questo non mi ferma; anzi, mi dà più coraggio di continuare a procedere lungo i corridoi, alla ricerca del punto giusto, quello che cercavo.

E infine eccolo lì.

Forse qualcuno mi dice di accomodarmi, forse no; io in ogni caso mi siedo e mi predispongo a parlare. Sono qui per questo dopotutto, per parlare liberamente senza essere giudicata, senza ricevere commenti o qualsiasi altra cosa. Voglio parlare, per la prima volta nella mia vita.

«Penso di essere malata» comincio. La mia voce suona strana, quasi tremante, e per un attimo mi chiedo se questo non sia dovuto alla mia recente perdita di peso, al fatto che i miei polsi sono pelle e ossa, che le mie gambe si sono assottigliate, che forse mi sto indebolendo.

Scuoto il capo perché non sono qui per questo, ora.

«Voglio dire» ricomincio, «penso di avere qualcosa. Nella mia... testa. Non so cosa ma so di essere malata, forse ho una patologia, forse non sono mentalmente stabile, e questo spiegherebbe molte cose» affermo. «Il fatto che sto cadendo a pezzi, ad esempio. Allontano tutti quanti, distruggo tutto quanto. Studiavo, ma ero un fallimento; lavoravo, ma mi hanno licenziata; poi la mia famiglia è diventata cieca. Nel senso che nessuno di loro vuole vedere, non vogliono scoprire né sapere, preferiscono nascondersi dietro lo status sociale e le stupide convenzioni della società piuttosto che chiedere a uno qualunque dei loro figli se c'è qualcosa che non va. Ormai ci sono abituata. O forse» esito, «o forse questa è una bugia. Mi aspetto sempre troppo da loro. In realtà sono sola e questo perché c'è qualcosa che non va in me. Ho fatto fuggire il mio fidanzato, ed è stata tutta colpa mia; se dovessi dire qual è stata la mia colpa non saprei come spiegarmi, perché non lo so di preciso nemmeno io, ma so che è stata colpa mia. O meglio, della mia testa, e c'è qualcosa che non va lì dentro.»

Aggrotto le sopracciglia per cercare di ricordare, e proseguo. Non so se mi sono state poste delle domande, ma non mi interessa perché il mio unico scopo è parlare, non fare terapia. Non sarebbe comunque utile per me. «Ho degli episodi in cui la mia rabbia è ingiustificata e assolutamente esagerata, subito dopo mi sento in colpa e non capisco più cosa l'abbia scatenata, e se cerco di ricordare da cosa è nato tutto quanto mi sento terribilmente confusa, e sospettosa di, beh- tutti. Ma in ogni caso faccio bene a non fidarmi della gente, perché tutti quelli che dicevano che sarebbero stati sempre al mio fianco, che non mi avrebbero lasciata sola, alla fine se ne sono andati.»

Sospiro perché parlare così tanto e così in fretta mi sta facendo venire il fiato corto, ma mi costringo a ricordare quello che volevo dire e a proseguire anche se sento che la mia mente vorrebbe fuggire e nascondere di nuovo tutto nella nebbia. «La gente è tutta bugiarda, ma credo che sia anche colpa mia. Io faccio fuggire tutti, anche se non faccio male a nessuno. O almeno, non direttamente, forse. No» scuoto il capo. «Io non faccio male a nessuno, piuttosto sono autodistruttiva, ma agli altri non faccio niente.»

Mi guardo intorno per un momento, sono confusa e respiro a pieni polmoni per far sì che la mia mente rimanga lucida. Non ho mai confessato tanto, e non posso fermarmi proprio ora.

«Il mio dolore è autodistruttivo, la mia rabbia è autodistruttiva, io lo sono, sono autodistruttiva. Ma quantomeno sono gli altri a ferire me, sono io a ferire me stessa, quantomeno sto male io e non sono io a far star male gli altri. Questo no, non lo vorrei mai.»

Mi interrompo per prendere fiato. Vedo le mie mani tremare, ma non me ne preoccupo troppo; dopotutto non è la prima volta che capita, non è grave.

«Non potrei sopportarlo» concludo.

«Il problema ora come ora è che mi sento vuota; non ho uno scopo, non riesco a fare nulla. Non voglio leggere, non voglio vedere la televisione, tutto mi annoia, tutto quanto mi fa venire da piangere, e solo il pensiero di dover mangiare mi mette la nausea. Forse non esisto più» ragiono. «Forse sono viva, ma non mi sento affatto tale. Sono già morta e l'unica cosa che vorrei fare è dormire, dormire per sempre, perché da sveglia mi sento male, terribilmente male, sempre.»

Finalmente sospiro e mi zittisco. Ho finito. Ho detto tutto ciò che dovevo dire, e ora sono pronta per l'ultimo atto. «Oggi lui mi parlerà, e so che non vorrà rivedermi mai più. Ma io sono pronta, sai, pronta a lasciare un ricordo che rimanga per sempre, perché sono quasi morta, ma non voglio passare inosservata. Beh» concludo, «ora ho davvero finito e posso andare. Grazie di avermi ascoltata.»

Lentamente mi alzo in piedi scrollandomi la polvere dai pantaloni, rimasta attaccata dopo essere stata seduta per terra tanto a lungo.

Lancio un'occhiata al mio orologio: sono in orario perfetto.

Per la prima volta da tanto tempo la mia mente è sgombra e sorrido al liscio marmo bianco che è stato il mio terapeuta oggi; sopra c'è inciso un nome, Anne Peterson, accompagnato da una foto. Quando era in vita non mi avrebbe mai ascoltata con tanto piacere, ora invece è tutto più facile.

Ecco, è sempre più facile quando si è morti, e questa ne è una prova in più.

Mi allontano lentamente dal cimitero, a piedi e sotto lo stesso sole di sempre, e ben presto il parco che sancirà una volta per tutte la fine della mia vita appare alla vista. E lui è già lì che mi aspetta.

Il discorso è esattamente come me l'ero immaginato, niente di più, niente di meno.

Anche lui se ne va, ma questa volta non sarò immobile e apatica.

«Perché vuoi farmi male?»

Urlo e lui spalanca gli occhi, fissandomi come si fissa una pazza. Ecco, l'avevo detto che c'era qualcosa che non andava nella mia testa.

«Vuoi farmi del male apposta, vero? Allora devi fare così» grido ancora, e tiro fuori dalla tasca dei miei pantaloni una lametta. Non è il massimo, sinceramente. Preferisco lame diverse di solito, questa è troppo affilata, troppo pungente, troppo precisa e sottile, ma mi adatterò.

«Questo è l'unico dolore fatto apposta che posso sopportare» affermo con voce stridula. La sento come da molto lontano, e per un attimo, uno soltanto, mi spavento perché non la riconosco affatto come mia.

Poi la mia mano, quella che tiene stretta la lametta, scatta verso il polso con un movimento svelto ed esperto, e lui non può fare nulla per fermarmi.

Un taglio profondo tinge di rosso la pelle per tutta la larghezza del polso, da una parte all'altra, come un macabro sorriso in contrapposizione netta con le lacrime che mi solcano le guance.

Non mi ero mai tagliata così profondamente, ma questa considerazione attraversa la mia mente come un lampo; la mia testa preferisce ignorarla, concentrandosi invece sul viso sconvolto di lui, e sul rivolo di sangue che scende dal mio braccio e che cola a terra in tante piccole gocce.

Lascio cadere le braccia lungo i fianchi e il sangue mi gocciola dalle dita.

Una risata mi scappa dalle labbra, e una volta che inizio non riesco più a fermarmi. Rido, rido istericamente, e cado per terra.

Vedo come al rallentatore l'asfalto avvicinarsi mentre le mie gambe cedono, e le ginocchia sbattono violentemente sul selciato.

Ma io continuo a ridere, e il sangue continua a colare.

Ora lui è chino su di me, vedo la paura nei suoi occhi e non capisco il perché.

È tutto più facile quando si è morti, no?

Ma io in realtà lo sono già, morta.

Cosa cambia?

Il richiamo del vuotoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora