Capitolo 3

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La cena nella mia famiglia è sempre stata un momento sacro della giornata.

Tutti si riuniscono intorno al tavolo per raccontarsi le proprie giornate, le proprie esperienze.

Ho sempre amato quel momento; ero felice di ascoltare mio padre parlare della sua giornata di lavoro e mamma degli strani incontri fatti al supermercato, anche se io non avevo mai avuto nulla da raccontare.

Ho sempre tenuto tutto per me, anche nella mia relazione con Paul.

I miei genitori sapevano ovviamente che stavamo insieme, e dei nostri piani per il futuro, ma tutto il resto non era qualcosa che volevo sapessero, non che gli interessasse.

Ero sempre stata chiusa con la mia famiglia: non ho mai sentito di appartenergli e di farne parte in maniera attiva, per questo amavo così tanto quando finalmente ci ritrovavamo tutti a tavola e mi rendevano partecipe di tutto ciò che gli accadeva. In quel momento, anche solo per poco, mi sentivo nel posto giusto.

Oggi però questo momento mi sta uccidendo. Ho appena detto che ho trovato un lavoro di prova e tre paia di occhi sono su di me, pronti a giudicarmi.

"Davvero?" esclama stupita mia madre, con la forchetta a mezz'aria.

Io mi limito a spostare i miei piselli nel piatto, improvvisamente sazia e con la voglia di vomitare.

"Già." mormoro, imbarazzata.

I miei occhi sono rivolti al piatto, incapaci di guardare qualsiasi altra cosa.

"Oh, è una buona cosa." dice mio padre, anche se non risulta entusiasta quanto vorrei.

"È un buon posto?" chiede mia madre, mandando giù una forchettata di pollo.

"Oh sì." dico io, facendo un tentativo e alzando gli occhi dal mio piatto per rivolgerli alla donna che mi ha messo al mondo.

Mossa sbagliata.

Lei mi sta ancora fissando stupita, e poco convinta.

"Cosa c'è?" mi azzardo a chiedere, ferita.

"È solo che... Non ce l'aspettavamo, Madison." dichiara mio padre, andando in soccorso a mia madre.

Non hanno fiducia in me.

Non ne hanno mai avuta.

Nel mentre, Rachel continua a mangiare in silenzio, facendo la giusta scelta di non intromettersi.

"Perché?" chiedo. "Voglio dire, ho sempre avuto ottimi voti a scuola, tra poco comincerò l'università e... Ho cercato di dare il meglio di me stessa per rendervi fieri, non... Non sono mai stata una scansafatiche... Non capisco perché siate così stupiti." La mia voce si affievolisce e si spezza verso la fine del discorso, ma cerco di trattenere le emozioni.

Non voglio crollare, non voglio piangere.

Tutto si sistemerà.

È solo un malinteso.

"Ecco..." comincia a parlare papà. "Non hai mai provato a cercarti un lavoro, o una cosa del genere. Pensavamo non volessi, o non fossi in grado di gestirlo, insieme alla scuola. E poi non credevo, anzi non credevamo, che avresti accettato così facilmente l'idea di rimanere qui. Insomma, ti sei opposta così tanto a questo trasferimento." La sua voce è calma e controllata, leggermente preoccupata per la mia reazione.

Come potevano pensare che non riuscissi a trovare un lavoro? Dio santo, ho 18 anni, dopotutto!

E poi cosa dovevo fare? Se devo vivere qui, il minimo è cercare di adattarsi.

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