Capitolo 4 - Korzus

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Il clangore delle spade si elevava dal campo di addestramento. Il sole era una palla di fuoco intenta a tramontare tra l'intersezione di due montagne gemelle. Il cielo era un mantello grigio e nebuloso tale da togliere il respiro. Un penetrante odore di stalla misto a sudore stantio si stava mischiando alla polvere scura formando un pulviscolo fastidioso e opprimente. Sul campo c'erano due uomini intenti a sfidarsi: il primo  aveva la pelle chiarissima, i capelli di un biondo così lucente da apparire bianchi alla luce del sole, gli occhi di un azzurro così chiaro da sembrare quelli di uno spettro. L'altro, un omone mastodontico dai capelli crespi e dalla carnagione abbronzata, era un ammasso di carne e muscoli da far rabbrividire a prima vista. Era solo un allenamento avrebbe detto qualcuno, ma a Korzus non era mai "soltanto" un allenamento. Non c'era giorno di addestramento che si chiudesse senza un paio di cadaveri e una mezza dozzina di feriti. Questo perché in quel posto perennemente grigio e desolato chiamato Korzus, nessuno osava risparmiarsi. Anche durante l'addestramento si utilizzavano armi di acciaio, finemente affilate, e si combatteva all'ultimo respiro. Inoltre, nessun guerriero di valore si sarebbe mai sognato di abbandonare la contesa prima di essere impossibilitato, giacché il ritiro era considerato un disonore per il popolo guerriero, anche in allenamento. 
Lo scontro, comunque, era appena cominciato. L'uomo dalle pelle abbronzata tentò subito all'attacco cercando di affondare la picca nell'addome del suo avversario. Quest'ultimo lo neutralizzò inclinando in diagonale la spada. L'impatto che li fece allontanare di qualche metro e i due scavarono dei solchi superficiali nel terreno. Si guardarono negli occhi l'un l'altro, per un lungo momento, il sangue che ribolliva come magna nelle loro vene. Camminarono in cerchio per qualche secondo, studiandosi l'un l'altro. Di tanto in tanto uno dei due fintava un attacco, ma poi tornava subito in posizione di guardia, preferendo attendere un momento più propizio, una leggera distrazione dell'avversario, qualsiasi cosa gli permettesse di spingere la contesa a proprio favore. Intanto Quatarius il re, detto anche Il Bruto, li osservava dall'alto del suo scranno. Questo era posto sul punto più alto della gradinata di pietra che circondava tutto attorno il diametro del campo. Il Re supervisionava quotidianamente gli addestramenti fintanto che l'eco della guerra e delle razzie non lo reclamava, credeva fosse l'unico modo per selezionare gli uomini migliori per le scorrerie o per formare la prima linea per le future battaglie. Ed era lo stesso re a condannare a morte chiunque non si fosse rivelato all'altezza della tradizione guerriera di Korzus. Addirittura i ragazzini alle prime armi, qualora non fossero morti naturalmente nel duello. Lo scontro era ricominciato senza lesinare sulla ferocia, la picca affondava e la spada mulinava senza un attimo di esitazione fra i due contendenti. I due furono in perfetto equilibrio per un po', ed entrambi mostrarono le loro abilità guerriere, per quanto rozze nelle movenze e fin troppo impetuose. Ma poi, l'uomo più grosso iniziò a patire la stanchezza. Era molto più pesante e, vista la stazza, consumava molte più energie del suo avversario.. Continuava con i suoi fallaci tentativi d'affondo ma questi erano sempre più lenti, sempre meno potenti, sempre più bassi, tant'è che gli occorreva ogni volta più tempo per rimettersi in posizione di guardia. Il guerriero albino, così, approfittò del vantaggio acquisito e lo colpì di striscio alle giunture delle braccia. L'omone berciò di sofferenza, ripiegandosi sulle ginocchia, il sangue che gli ruscellava dall'immane tricipite. L'albino gli scivolo felino alle spalle, pronto a infliggergli il colpo fatale ma.. non glielo concesse. Sadico, volle dilatare l'agonia del suo avversario. Così, lasciò che si rialzasse. L'uomo più grosso si tirò su, accecato dall'umiliazione e pronto ad attaccare. Ma era così dolorante che fu costretto ad usare la picca come appoggio. Sembrava un elefante colpito a morte, stanco e sofferente. L'albino mostrò un sorriso arrogante, derisorio. Sorriso che non dovette piacere all'avversario, che con più ferocia di prima e con l'ultima oncia di forza si fiondò contro di lui. Ma anche stavolta, il tornando di ferro non fece che tagliare l'aria. I colpi vennero evitati facilmente dal guerriero albino. Infine, tentando un ultimo affondo, la picca dell'uomo grosso si incuneò nel terreno e, sotto il suo peso, si spezzò in più parti, lasciandolo disarmato. L'albino si avvicinò famelico. L'omone capì che ormai la sua ora era giunta. Si sentiva nudo senza la sua arma. Alzò il capo e guardò Quatarius, come a cercare un'improbabile indulgenza. Ma conosceva già la risposta. Allora, guardò ancora più in alto, verso il cielo chiuso stretto fra le nubi, pregando in onore della Madre, sperando l'accogliesse negli infiniti Campi Novalus. Giunse un debole raggio di sole, una risposta celeste e che gli illuminò il volto. Lui, sorrise sereno. Anche l'albino guardò il re, ma per ricevete il crisma della condanna a morte che avrebbe dovuto legittimamente riscuotere. Il Re Bruto guatò intensamente quest'ultimo e, poi, rispose con un cenno impercettibile con il capo. Era un sì. L'uomo sconfitto sarebbe morto come da tradizione guerriera. L'albino levò la lama della sua spada al cielo che brillò dorata al tocco del sole boccheggiante. E con la stessa velocità con cui si levò, così scese. Tagliò in un colpo la testa dell'uomo che ruzzolò per qualche metro nel terreno arido del campo. Il sangue dello sconfitto nutrì il campo formando piccole pozzanghere torbide. Il guerriero albino si inchinò deferente al cospetto del re Quatarius e fece per allontanarsi soddisfatto, ma soprattutto, vittorioso. Nell'abbandonare il campo esibì un sorriso a denti larghi a cui seguì un urlo selvaggio e liberatorio. Quatarius rimase lì ad osservarlo dall'alto del suo scranno, impassibile. Pareva contrariato. Il re schioccò le dita reclamando la sua attenzione. L'albino percepì il soffio gelido di qualcosa che non andava inerpicarsi per le sue vertebre e bloccò la sua avanzata. Il sorriso gli si era d'un tratto dissipato. Quando Quatarius richiamava l'attenzione raramente era per dare buone notizie. L'albino si voltò esitante e tornò indietro, con passo incerto, rigido e pregno di timore. Fu un attimo: due uomini della scorta del re piombarono alle spalle del guerriero albino. Gli cinsero le braccia e gli puntarono due lame all'altezza della gola. L'uomo si bloccò, una goccia di sangue scuro serpeggiò all'altezza del collo dovuta al contatto con il ferro affilato. L'albino era disarmato - stupidamente a pensarci ora – appena liberatosi della sua arma con cui aveva eseguito la condanna a morte. Non poteva reagire e  chiese al re spiegazioni. Quest'ultimo rispose ancora una volta con un imperturbabile silenzio. Il volto del re guerriero non faceva mai trapelare alcuna emozione, semmai ne provasse. Ma quel silenzio, in quel nulla sonoro, era più esplicito di mille parole. L'uomo prese a dimenarsi e a scalciare contro gli uomini che lo tenevano bloccato per le braccia, voleva liberarsi e tornare a casa. Lui aveva vinto! Ma Quatarius evidentemente non la pensava così.
"Perché mi state facendo questo!? Perché!?" sbraitò inutilmente l'uomo provando a districarsi dalla morsa dei due uomini. Il re si voltò di spalle infastidito e si accommiatò con lo stesso schiocco di dita precedente, un invito ai chiudere celermente la questione. Il collo dell'albino divenne presto un'insenatura purpurea. Le lame degli uomini del re gli recisero la carotide e il corpo venne lasciato agonizzante al suolo in compagnia degli altri sconfitti. La sua vità gli scivolò dagli occhi.

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