Capitolo 5 - Danza degli Spiriti

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Furono giorni di marcia interminabili. Piogge torrenziali accompagnarono gran parte del loro cammino fatto di sentieri fangosi e strade aspre. Per approvvigionarsi i mercenari solevano rivolgersi alle poche locande incrociate per la via, tutte rigorosamente pagate con il conio anticipato dal loro assoldante. Quando avevano meno fortuna, si arrangiavano dando la caccia alla selvaggina del posto composta per lo più da cinghiali e cervi spauriti. Ma quelli non erano gli unici animali che si potevano incontrare. Qualche settimana prima la banda si era imbattuta in un lupo affamato, grosso almeno il doppio dei normali lupi. Era un Cerbero, una bestia a tre teste, sempre più raro in quelle zone, ma tutt'altro che estinto. Koruru urlò di paura quando la bestia snudò le zanne: stalattiti pallide che grondavano bava densa e giallognola. Koruru subito cercò riparo tra le gambe di Veisen. I mercenari, invece, si fiondarono contro la bestia: alcuni di loro morirono durante l'assalto, altri rimasero feriti nel tentativo di abbatterlo, chi con trascurabili lacerazioni, chi addirittura senza un arto morendo dopo qualche giorno preda della febbre scaturita dalle infezioni.
Fu Veisen, il guerriero dalla maschera di ferro, a chiudere ancora una volta la questione squarciando l'intestino del cane infernale con un affondo che lo lasciò agonizzante al suolo. Koruru notò con orrore degli esserini informi uscire dal suo ventre insieme alle viscere. Era una femmina ed era incinta. Koruru si sentì d'un tratto compunto. Quella bestia, per quanto mostruosa potesse sembrare, stava cercando soltanto di far sopravvivere se stessa e i suoi futuri cuccioli procacciandosi del cibo. Ma purtroppo per lei aveva scelto il pasto sbagliato e ora annegava nel suo stesso sangue, insieme alla sua prole.
"Mia madre e i miei fratelli" pensò macabramente Koruru guardando quell'immagine.
Il Cerbero venne poi scuoiato e cucinato dai mercenari su un braciere di fortuna mentre la pelliccia venne utilizzata da Lowry per scaldarsi nelle notti gelide e oscure che sarebbero seguite.
La notte successiva fu una notte lunga per Koruru, forse la più lunga da quando si era unito alla banda di Veisen. Rimuginò su ciò che stava facendo e sulla strada che aveva deciso di intraprendere. Era una vita dura e poco adatta ad un ragazzino quella che stava seguendo, alle prese quotidiane con pericoli fino ad allora ascoltati solo nelle apprensioni di sua madre. Ma d'altronde lui aveva un solo obiettivo: vendicare la sua famiglia. E come poteva farlo se non diventando un abile e temibile guerriero? Sì, di certo la banda di mercenari faceva al caso suo. Inoltre era anche in cerca degli assassini della sua famiglia e non c'era giorno che non passasse a interrogare gli uomini in viaggio con lui. Ma Veisen gli rispondeva di rado sulla questione, mentre gli altri guerrieri si limitavano a liquidarlo con una risata o una battuta sconsiderata: "Come potremmo riconoscerli, tra tante gente che abbiamo ucciso?" gli rispose una volta Lowry. L'uomo era il chiacchierone della banda, aggressivo nei modi e sferzante nelle parole e anche uno dei mercenari più rispettati dalla masnada. Quella risposta fece andare su tutte le furie Koruru. Fosse stato più grande, il ragazzino gli avrebbe infilzato una spada dritta al cuore facendogli pagare la sua insolenza. Ma ora, esile e basso com'era, a stento riusciva a sollevare la spada e infilzare uno scoiattolo. Allora pensò a suo padre Jalte, un pensiero migliore, di cui non aveva visto il cadavere ma credeva fosse morto di certo. O forse, voleva crederlo. Avere ancora un legame non gli avrebbe permesso di covare il rancore necessario per diventare il guerriero implacabile in cui si sarebbe voluto trasformare. Koruru pensava spesso a suo padre, sperava di riabbracciarlo, ancor di più, ma non in quel momento. Sentiva di avere un destino da compiere. Si girò e si rigirò nel suo giaciglio, cercando di sbarazzarsi di quei pensieri che gli turbavano diuturnamente il sonno. L'immagine era sempre la stessa: la madre pallida come un alabastro immersa in una pozza di sangue, gli occhi privi di vita, le sue braccia protese disperate volte a difendere i suoi cuccioli. Come quel Cerbero. Quel maledetto Cerbero che gli rubava il sogno.
Il giorno dopo avrebbe continuato l'addestramento, quell'addestramento che si era rivelato fino a quel momento più difficile del previsto. Veisen lo faceva esercitare per quattro ore al giorno, due all'alba prima di riprendere la marcia e due la notte prima di andare a dormire, con esercizi ai limiti delle capacità fisiche di un bambino. A questi seguivano duelli con la spada da cui ne usciva a dir poco malconcio e con dolorose escoriazioni su tutto il corpo. La cosa che gli causava dolori perenni agli arti e ciò non gli permetteva di marciare come avrebbe voluto. Una marcia sfiancante: il passo di avvicinamento alle colline delle Pilimorte, luogo dove i mercenari, - insieme alla forza bellica di Atlaya - avrebbe affrontato i temibili guerrieri di Korzus. Ma ci sarebbero voluti ancora settimane di cammino. A circa metà strada, inoltre, avrebbero dovuto fare tappa in un posto che Veisen chiamava "il Tempio della Dea", a Gheyros, un luogo tetro e sinistro a sentire i racconti dei mercenari. Lì ci viveva una certa Cassandra, una donna di una bellezza tanto abbacinante d'aspetto quanto oscura di cuore, che alcuni credevano fosse la reincarnazione della Madre fatta persona. Così seguirono giorni di cammino, i giorni di sole si contavano sulle dita di una mano mentre le intemperie erano all'ordine del giorno. Koruru si sentiva perennemente fradicio mentre tutto attorno era sempre umido e viscido. Solo in pochi, tra cui Veisen, avevano l'onore di procedere a cavallo e allietare il proprio cammino. A volte, Veisen, invitava Koruru a salire in groppa alle sue spalle ma il ragazzino rifiutava perentoriamente. Il cavallo in una compagnia mercenaria lo si doveva guadagnare. Era la regola. E di certo Koruru non voleva approfittare della sua amicizia con il guerriero mascherato, se amicizia la si potesse chiamare, per ricevere quel privilegio. Già sentiva di non godere della simpatia della banda, che lo considerava solo un intralcio vista l'età e le piccole gambe rachitiche che rallentavano il passo; figuriamoci se avesse rubato un posto a sedere come un odioso Signorotto di Atlaya. E intanto i giorni passavano sempre più lenti, sempre più sfiancanti. A Koruru pareva di attraversare sempre il medesimo sentiero fatto di rovi ed erbacce, rocce di arenaria e alberi smorti. Poi, finalmente, una sera Koruru e il resto della banda approdarono alle porte di Gheyros: la città non aveva mura difensive ma appena un corpo di guardia color sabbia e decadente alla sua entrata. Il cielo sopra la città era chiuso da alte betulle, ulivi ed eucalipti che rendevano il cielo verde scuro e il terreno tendente di un grigio fumo. L'umidità e il caldo erano a tratti insopportabili il che rendeva ancora più nervosi i membri della compagnia già stremati dal viaggio. Le abitazioni che superarono sembrarono tutte uguali, fatte di pietra e legno con delle brecce alla base che fungevano da entrata. Solo una costruzione si distingueva da tutte le altre. Koruru la vide già a diverse leghe di distanza che svettava pallida e altissima alle spalle di alcuni pini, il cielo piombo che incombeva su di esso. Era il maestoso tempio di Cassandra. La costruzione non aveva una forma consueta, ma possedeva una schiera rettangolare di colonne rastremate dove, su quella centrale, si ergeva una statua sottile e sinuosa dalle fattezze femminili. Non era la Dea Madre ne uno degli Dei del pantheon di Atlaya, Koruru ne era sicuro. Una religione antica e dimenticata? O, più semplicemente un'opera glorificante? Il ragazzino non seppe darsi risposta, almeno fin quando non giunsero alle sue imponenti porte. In cielo la luna era un medaglione di peltro, l'evanescente luce ne illuminava la soglia. C'erano due armigeri posti all'entrata a fare da guardia. Entrambi erano costretti in armature di bronzo consumato; sul capo indossavano un elmo con visiera che gli celava completamente il volto e incrociavano le lance inibendo il passaggio. Sembravano pronti ad usarle, se fosse stato necessario. Veisen capì che bisognava essere cauti. Lowry non fu dello stesso avviso, scese da cavallo e si presentò baldanzoso ai due guardiani, mostrando una pergamena fradicia d'acqua piovana chiusa in un sigillo di ceralacca dorato.

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