1. Il cognato

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Aprì la porta di casa emettendo un sonoro sospiro.

Era un segnale convenuto, cui la moglie era solita reagire mettendo sul fuoco gli avanzi del pranzo, uno spuntino che gli serviva per preparare lo stomaco ai piatti della cena.

Aveva molte cose di cui lamentarsi, ma non delle abilità culinarie della sua consorte: oltre a rimpinguarlo di prelibatezze, permettevano alla famiglia di arrotondare il suo magro stipendio da guardia carceraria. Era ormai consuetudine, infatti, che Annarella fosse chiamata alle feste dei nobilotti locali, per mettere a disposizione la propria arte tra i fornelli.

Forse era successo proprio questo, perché a un secondo e marcato sospiro nessuna voce aveva risposto.

Florio avanzò circospetto, sperando in cuor suo di non trovarsi davanti agli occhi una scena che fin troppe volte negli ultimi sei mesi si era materializzata.

Invece, quando si affacciò in cucina, lo vide lì, curvo sui piatti in quella postura da sciacallo che lo contraddistingueva, un boccale della sua birra davanti alla faccia.

«Ah, sei tornato» salutò dopo aver posato il recipiente, la bocca ancora sporca di schiuma.

«Dov'è tua sorella?» chiese Florio lasciandosi cadere su una sedia.

«Al mercato, se ho ben capito.»

«Hai di nuovo svuotato la dispensa?»

Il giovane finse di non aver sentito e gli porse un piatto di avanzi, ormai vuoto.

Florio prese il poco che restava, solo per il gusto di non farlo finire in bocca al cognato. «È stata una giornata dura?»

«Non eccessivamente» ribatté l'altro, fissando l'ultimo boccone sparire nelle fauci del padrone di casa.

«Sarai stato in molte botteghe» aggiunse Florio, esasperando il tono sarcastico.

«Un paio...»

«Un paio... quali?»

«Sono stato dal ceramista, quello sul Dosso degli Amanti. Ma suo figlio ha deciso d'imparare il mestiere e non c'ha bisogno di apprendisti o di garzoni.»

«Certo, è naturale. E l'altra?»

Il giovane ingollò l'ultimo sorso di birra e lo squadrò come se non potesse metterlo a fuoco. «L'altra cosa?»

«L'altra bottega. Hai detto che sei stato in un paio di botteghe. Un paio sono due.»

«Ah, no, scusa, mi sono spiegato male.»

«Quindi sei stato solo dal ceramista.»

«Sì.»

«E tutto il resto della giornata cos'hai fatto?»

«Cosa vuoi che ho fatto» replicò con aria di sufficienza. «Sono stato alla locanda di Mirianda.»

«E lì hai incontrato altri potenziali datori di lavoro?» Poteva sembrare una domanda sarcastica ma non la era, e per due ottime ragioni: primo, suo cognato non l'avrebbe capita; secondo, c'era effettivamente la possibilità di ottenere un lavoro in quel genere di locande, ed erano il tipo di lavori che svolgevano le persone con cui Florio aveva quotidianamente a che fare, quelle che stavano dalla parte sbagliata delle sbarre.

«No, ho bevuto» rispose il giovane, mostrandosi disturbato dalla retorica della domanda. «Ora però scusami, mi butto un po' a letto che ho un terribile mal di testa. Chiamatemi quando è pronta la cena.»

Florio lo fissò allontanarsi con incedere claudicante verso lo sgabuzzino che gli avevano adibito a stanza, poi si portò la mano alle tempie e strinse forte nel tentativo di scacciare tutti i cattivi pensieri che l'indolenza del cognato gli procurava. Ma fu inutile. Ricorse allora all'estremo rimedio che aveva nascosto sotto un mattone smosso dell'acquaio: tabacco della Val Galimino.

Aveva promesso ad Annarella di smettere, e ci era anche riuscita, lei, a farlo smettere, a suon di sberle e serate mandate in bianco. Poi era morta sua suocera, il fratello di Annarella si era ritrovato in mezzo a una strada e loro obbligati a ospitarlo. E in un mese lui aveva ricominciato a fumare. Di nascosto.

Accese la sigaretta sulle braci e uscì di casa per evitare che l'odore lo tradisse. Ma proprio fuori dall'uscio incontrò il viso tondo e perennemente imbronciato della moglie, reso ancora più cupo dalla fatica nel reggere due pesanti borse.

«Non è come sembra» ribatté prontamente nascondendo la cicca in una mano.

Annarella posò le borse senza mai togliere gli occhi da quelli di Florio. Poi, con un gesto repentino, strappò la sigaretta dalle mani del marito. E se la mise in bocca.

Florio prese la spesa e la portò in casa, poi raggiunse la moglie che lo attendeva fuori. Insieme s'incamminarono giù per il calle.

«Dobbiamo fare qualcosa» dichiarò Annarella dopo pochi passi.

«Per Cordo?»

«Certo, idiota, per cosa altrimenti? Mio fratello ci sta rovinando. E se aspettiamo lui la situazione non cambierà. Oggi è stato in locanda tutto il giorno...»

«Prima è andato dal ceramista» si sorprese a dire Florio, neanche volesse difenderlo.

«A me ha detto d'esserci stato ieri.»

«Ah.»

Annarella tirò l'ultima boccata, senza curarsi di lasciarne un tiro al marito, e scagliò il mozzicone sul selciato fangoso. «Possibile che tu non possa fare niente? Cosa serve avere un impiego statale se non puoi sistemare questi problemi?»

«Serve ad avere uno stipendio sicuro...» protestò timidamente Florio. «E poi che dovrei fare? Chiedere al Capitano un lavoro per mio cognato?»

«Non mi pare un'idea così balorda.»

«Tu non capisci, anche se lo faccio il Capitano dovrebbe chiedere al Comandate della guarnigione, che a sua volta dovrà chiedere a qualche altro tizio che passa le sue giornate chiuso in un ufficio. Insomma, non si può mica assumere uno così, senza che ce n'è bi...»

Florio si bloccò in mezzo alla strada, e un improvviso e ampio sorriso cominciò a tagliargli il grugno in due.

Annarella si fermò due passi avanti a lui: «Oh, che c'hai, non starai mica tirando le cuoia, vero?» gli chiese scuotendolo con lieve apprensione.

Il sorriso di Florio si allargò mostrando allegramente due file di denti perfetti: «No, ma sto per risolvere il nostro problema!»

Boia chi restaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora