-Sei uno sfigato!- strillò il bambino mentre lo spintonava a terra. -Non sei neanche francese! Che ci fai qui?-
Eren affondò gli incisivi nel labbro inferiore, ingoiando il bisogno di dar libero sfogo alle lacrime, i pugni stretti lungo i fianchi e le ginocchia escoriate per la lotta impari che aveva ingaggiato con quel ragazzino più grande di lui.
Guardò il pantaloncino cachi che gli lasciava scoperte le gambe pallide ed ossute, ormai stracciato e scucito in alcune zone, al punto che, se non si fosse sbrigato a rientrare in casa, non avrebbe resistito ancora a lungo.
Come lo avrebbe detto alla mamma?
-Oi!- sentì esclamare da un coetaneo del rivale poco distante da loro, e quasi raggelò sul posto quando rivelò il suo volto, mentre afferrava il compagno di classe per una spalla e gli si parava davanti, affiancato da un altro fanciullo più basso.
Che avrebbe infierito anche lui? Aveva creduto di poter sostenere una rissa con un bambino fisicamente più forte, ma ora che aveva rovinato i vestiti che aveva indosso - e per cui la mamma di sicuro si sarebbe arrabbiata, visto i debiti che Grisha aveva lasciato sulle loro spalle e l'arrivo di una sorella imprevista -, come avrebbe fatto a reggere il confronto da solo?
Doveva trovare una soluzione al più presto possibile, un escamotage, un qualsiasi tipo di...
-Hai bisogno di aiu-
Una manciata di terriccio colpì il biondo in pieno volto, ed Eren sfruttò quell'esatto istante per sollevarsi facendo leva sui palmi scorticati, afferrare lo zaino riverso al suolo a qualche passo da lui ed iniziare a correre freneticamente verso casa.
E mentre correva, Eren piangeva, perché era così follemente surreale quanto non avesse mai un istante di tregua. Eren correva e le lacrime gli imbrattavano le guance di gocce salate e polvere, i piedi che non rallentavano la loro corsa frenetica neanche un secondo e le nocche escoriate che accorrevano a cogliere quell'amarezza per non lasciarne traccia.
Ma come poteva, se ogni singolo giorno la vita non faceva altro che ribadirgli quanto fosse altalenante la felicità?
Corse nell'androne del decadente palazzo in cui viveva, i singhiozzi che gli riempivano la testa di clamore ed il vuoto nel cuore, rattristato più che mai.
Poi, un suono.
Un unico, flebile suono che aveva udito, ovattato e lontano.
Che se lo fosse immaginato?
Prese ampi respiri profondi, incamerando piano l'aria nel tentativo di prosciugare quella distesa liquida di mestizia che portava negli occhi.
Eccolo di nuovo! Più nitido ora, e, come il cinguettio di un uccello, Eren ne ascoltava il dolce canto, lieve e melodioso, che si diffondeva fra le scale di pietra per occultarne la bruttezza.
Ed Eren si lasciò invaghire da quella Musa dal bell'aspetto, vittima di una magia di cui sarebbe stato incantato sino allo scadere della sua esistenza, eternamente nutrita da ella.
Aveva avuto modo di approcciarsi alla musica solo a scuola, eppure mai gli era sembrata una materia degna di attenzione, con tutto lo strimpellare che i suoi compagni andavano facendo con i loro flauti di plastica. Eppure ora ogni cosa pareva diversa, ogni nota sembrava essere nuova, viva, se generata da quel complesso meccanismo di corde e legno, e nuova era la sensazione che stava provando mentre saliva gli scalini in direzione della sorgente di quell'armonia.
Si fermò.
Sul pianerottolo del secondo piano, dietro una logora porta in legno d'acero, la creatura faceva le fusa al suo padrone, lasciandosi vezzeggiare senza indugio alcuno.
Condusse lo sguardo verso lo spiraglio di luce che filtrava dal bordo, e quasi poteva immaginare che quella fosse l'aura abbagliante che essa emanava a contatto con il suo intimo complice.
La melodia incalzava ad ogni battuta, cadenzata e suadente, le scale si rincorrevano senza sosta in un vortice che si riverberava fra le sue coste lasciandolo senza fiato; in chiusura una nota in chiave di basso, cupa, sorda.
Pausa.
Silenzio.
Eren accostò l'orecchio alla porta, le iridi tinte di meraviglia che le faceva splendere come pietre ed i palmi sulla vernice incrostata, in attesa.
Ma il supporto venne meno in men che non si dica, ed inciampò in avanti varcando inevitabilmente la soglia dell'appartamento, colto in flagrante nell'atto di origliare.
I suoi occhi ricaddero su dei mocassini dal tessuto di cuoio consumato, mentre morbide erano le pieghe del pantalone chiaro che si adagiavano su di essi. Il bambino sollevò lentamente lo sguardo verso il volto di colui che, era più che sicuro, aveva intrattenuto quella performance sino a quel momento.
Si aspettava un'occhiata truce su un volto raggrinzito, degli occhialetti sul naso ed una rada barba incolta spruzzata sulla pelle sciupata dagli anni, il tipico clichè da scadente dramma francese.
Ecco, forse aveva indovinato solo gli ultimi due punti della sua immaginazione, perché sul primo ebbe modo di ricredersi non appena le loro pupille si incrociarono: perché quel vecchio gli stava sorridendo docilmente?
Un moto di disagio lo colse impreparato e, di fronte a quel crescente imbarazzo che lo stava facendo avvampare, strinse le mani in due pugni ed assunse il più ostico grugno che potesse mettere in scena (per quanto fosse possibile per un bambino di undici anni, si intende).
-Non stavo origliando!- esclamò risentito, pronto a far fronte al secondo round della giornata - e pregando, in cuor suo, che si limitasse a riprenderlo solo verbalmente.
Una genuina risata si levò nell'etere e risuonò nella stanza, baritonale e stranamente confortante, e per un istante quasi gli venne il dubbio che si trattasse di Babbo Natale sotto mentite spoglie. Le iridi scolorite si posarono sul viso sporco di Eren, e l'uomo si portò le mani sui fianchi, facendogli poi un occhiolino complice.
-Sono più che sicuro che fossi capitato per caso, Eren.-
Ciò detto, si voltò e prese a camminare verso una porta dal riquadro in vetro opaco, rendendo così impossibile capire cosa vi fosse al di là di essa.
Il minore sussultò all'udire il suo nome pronunciato da quell'ambiguo signore, ed aggrottò ancor di più la fronte.
-C-come sa il mio nome?-
Egli sghignazzò in rimando, ma era già scomparso oltre la soglia della camera per poter scorgere sul suo viso ancora una volta quell'espressione che, a detta di Eren, era di pura impertinenza e niente di più.
-Ti conosco da molto più tempo di quanto tu creda, figliolo! Tua madre è proprio un tesoro, mi raccomando, prenditi cura di lei.-
Schiuse le labbra e restò in silenzio, il corpo impietrito e gli occhi sgranati dalla sorpresa: conosceva Carla e, probabilmente, aveva avuto modo di incontrare anche lui quando era più piccolo, ma col passare degli anni era divenuto talmente schivo nei confronti delle persone che aveva anche smesso di giocare nel quartiere, ergendo una barriera tra il suo appartamento ed il resto del mondo che non aveva alcuna intenzione di crepare.
Questo era quello che aveva creduto fino a quel breve ed intenso periodo della sua vita.
-Allora? Non vuoi venire a provare anche tu?-
-Ma io non sono bravo!- strillò il ragazzino, esasperato per quella prorompente voglia di assecondare il suo desiderio e la vergogna di non aver mai toccato un tasto di uno strumento simile.
-AH! Se non provi non sarai mai bravo, figliolo. Fa parte del gioco.-
Ed ecco che aveva ripreso a suonare, un Do che gli sussurrò di varcare l'entrata della stanza per scoprire cosa si celasse al suo interno.
Se solo il signor Feliks avesse saputo che la musica l'avrebbe salvato.
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The last bar
FanfictionTUTTI I DIRITTI RISERVATI Levi Ackerman, come ogni singolo giorno, si rifugia nella sua routine costituita da metro, musica e sogni intrappolati in un passato amaro. Ed è proprio una mattina che, recatosi nella stazione parigina, ode in lontananza...