Capitolo 3

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Myrina's pov

Appena comincio a intravedere le alte mura che racchiudono la città mi calco meglio il cappuccio in testa e guardinga mi nascondo come posso tra la sterpaglia e i piccoli arbusti, per non farmi vedere dalle guardie appostate ai confini della città.
Tendo l'orecchio e, nel momento in cui sento lo sferragliare delle armature sufficientemente lontano, mi avvicino con passi felpati al punto indicatomi da Damian molti anni addietro, che continuo ad utilizzare quando, durante le mie scappatelle fuori città, si verificano situazioni critiche. Sento sui polpastrelli la pietra ruvida mentre una goccia di sudore freddo mi attraversa la tempia per la paura di fare un rumore di troppo.
Devo sbrigarmi.
Appoggio un piede su un mattone leggermente sporgente e con agilità riesco ad arrampicarmi fino a un'altra piccola rientranza riuscendo così ad arrivare ad un buco verso un quarto dell'altezza del muro dove un blocco di pietra è caduto molto tempo fa, creando così un passaggio dove entro a malapena. Mi isso con le braccia e controllo che non passi nessuno nelle vicinanze.

Mentre atterro di soppiatto sul tetto di un edificio, ormai all'interno della città, penso a quanto mi sarebbe comodo usare una delle uscite che si trovano a poche leghe una dall'altra, per tutto il perimetro delle mura, se non fosse che mio padre avrà sicuramente informato le guardie della mia assenza quindi, di conseguenza, sarei stata fermata e riconosciuta sicuramente. Mi rabbuio pensando che, se questo succedesse, perderei definitivamente quel poco di libertà concessomi.
Scuoto veementemente la testa per scacciare quei pensieri non necessari. Se non mi sbrigo a rientrare che io sia uscita o meno dalla città il risultato sarà lo stesso: rinchiusa a vita nel gineceo. Così scendo rapida dal tetto, stando attenta a non essere vista, per poi avviarmi con passo sicuro per il lato nord della città dove si trovavano le istituzioni artigiane. Dopotutto, con i capelli raccolti sotto al cappuccio, un paio di stivaletti maschili e un chitoniskos lungo fino al ginocchio, rubato a uno degli schiavi, potrei essere tranquillamente scambiata per un garzone.

Cammino a passo spedito, evitando le occhiate dei pochi ateniesi che si aggirano a quest'ora in questo lato della città; niente di sospetto, come al solito riesco a non attirare sguardi indesiderati.
Eppure c'è qualcosa che mi impedisce di rilassarmi, che mantiene i miei nervi a fior di pelle e i sensi all'erta. Sento il tonfo dei miei passi sul terreno e i muscoli rigidi, pronti a scattare.
Mi sento osservata.
Mi giro repentina scrutando i dintorni.
Niente, assolutamente nulla di strano.
I soliti animali randagi che si aggirano per i sobborghi di Atene, gli schiavi che si sbrigano a tornare alla resistenza dei loro signori per preparare il pranzo e qualche plebeo che cammina freneticamente intento nel proprio lavoro: nessuno sta prestando attenzione a me. Eppure questo pizzicore che sento alla nuca non smette di infastidirmi.
Sono quasi arrivata al lato nord-est della città e  il sole è oramai già alto nel cielo.
Sono in tremendo ritardo!
Dopo qualche istante di esitazione comincio a correre più veloce che posso senza più curarmi che qualcuno presti o meno attenzione a me, tanto non riuscirebbero comunque a starmi dietro, ancora meno a prendermi.

Arrivo finalmente davanti a casa mia, un tripudio di marmi che poche persone possono permettersi, ed imbocco, il più discretamente possibile, la porta riservata ai servi che ha una scala assestante per arrivare al secondo piano, e quindi a camera mia.
Attraverso il corridoio davanti alle cucine, beccandomi qualche occhiata irata a cui rispondo con un timido sorriso di scuse, per poi cominciare a salire le scale.
Dovrò scusarmi con le ancelle più tardi, per aver coperto la mia fuga e essersi beccate le romanzine dei miei, ma adesso devo arrivare in camera mia il più discretamente possibile, evitando di far passare loro ulteriori guai.
Una volta di sopra mi avvicino al muro, schiacciandomi contro la pietra fredda; con un'occhiata veloce verifico che non ci siano i miei genitori nei dintorni per poi correre il più velocemente possibile verso la mia camera ed affrettarmi ad entrare.
Come una furia mi tolgo i vestiti da garzone e faccio a malapena in tempo a nasconderli dentro ad una cesta che inizio a sentire dei passi rabbiosi salire le scale, sempre più vicini.
Pochi secondi dopo mi ritrovo davanti mia madre, furente di rabbia.
<<Si può sapere dove sei stata?! È più di un'ora che tutti ti cercano, tuo padre è in collera!
Ha inviato tutti i servi non occupati nella preparazione del banchetto a cercarti e ha pagato profumatamente le guardie per scovarti senza diffondere la notizia onde evitare uno scandalo! Ti immagini?! "La figlia dell'arconte eponimo è una piccola ribelle che scorrazza libera per la città". Il buon nome della nostra famiglia ne verrebbe inevitabilmente compromesso!>>
Si ferma un attimo per riprendere fiato e darsi un contegno, lisciando con le mani pallide e delicate le pieghe dell'abito che aveva accartocciato a causa della rabbia.
La sento sospirare pesantemente.
A vedere mia madre, una donna sempre impeccabile, amorevole e composta, con i capelli in disordine, la lunga veste spiegazzata e che grida come le Erinni, capisco che la situazione è molto peggio del previsto.
Abbasso lo sguardo, pentita, per poi sentire le dita di mia madre rialzarmi delicatamente il mento e scontrarmi con i suoi occhi verdi, dolci e pieni d'amore come sempre.
<<Myrina, lo sai che ti voglio bene e che cerco sempre di coprirti con tuo padre ma cerca almeno un po' di venirmi incontro, d'accordo?>>
Mi limito ad annuire e a sorriderle, piena di gratitudine, prima di vederla avviarsi verso la porta per poi bloccarsi prima di uscire aggiungendo con tono perentorio:
<<Adesso vado a chiamare delle schiave che ti rendano presentabile nel minor tempo possibile e poi mi dò una sistemata; gli ospiti saranno qui tra meno di due ore.
E... -vedo i suoi occhi percorrere velocemente la mia figura e una smorfia piegare le sue labbra sottili- ti prego Myrina, fatti acconciare i capelli e truccare come si conviene a una ragazza della tua classe sociale. Tuo padre è già furioso, non sopporterebbe uno scherzetto come quello dell'ultima volta, quindi non fare sciocchezze>>.
Scorgo un velo di preoccupazione solcarle lo sguardo ma non faccio in tempo a pensarci ulteriormente che ha già oltrepassato lo stipite della porta, facendo spazio a quattro serve che, come piccole formichine laboriose, si mettono freneticamente al lavoro.
Incrocio lo sguardo della mia migliore amica, ancora rossa in volto e stordita dalla cavalcata,
che si appresta a preparare un impasto di sabbia ed orzo per lavarmi. Le faccio un sorrisino di scuse beccandomi un'occhiata tra il preoccupato e l'arrabbiato.
Mi arrendo, lasciandola lavorare, mentre vedo le altre ancelle preparare ogni tipo di gioielli, vestiti e accessori, discutendo eccitate fra loro su cosa farmi indossare.
Io, d'altro canto, non potrei essere più annoiata ed indispettita mentre subisco in silenzio il bagno e l'allarmante quantità di oli profumati e cere di cui vengo ricoperta da capo a piedi.
Mi perdo nei miei pensieri, ricordando la faccia di mio padre quando, all'ultimo banchetto, mi presentai con i capelli sciolti, struccata e vestita con un semplice chitone. Gli invitati furono a dir poco scandalizzati e mio padre si adirò a tal punto da chiudermi in camera per quasi un mese.
Un ghigno beffardo si dipinge sul mio volto ma vengo subito riportata alla realtà dalle serve che mi comunicano di aver finito il loro lavoro e la mia personale tortura.

Mi giro lentamente verso lo specchio tra il chiacchiericcio concitato e soddisfatto delle ancelle. Storgo il naso alla vista dell'immagine riflessa sulla superficie trasparente.
La figura all'interno dello specchio indossa un peplo lungo fino ai piedi, con le maniche che arrivano al gomito e fermate sulle spalle con due fibule dorate finemente lavorate e con all'interno incastrati due grossi rubini. Quest'ultime vengono richiamate dalla cintura che ferma l'abito; anch'essa interamente in oro e creata dal più abile degli orefici della città.
La guardo con disappunto: mi è  stata regalata dai miei genitori il giorno del mio sedicesimo compleanno quindi, se mia madre ha dato ordine di farmela indossare, il ragazzo che incontrerò oggi è sicuramente un ottimo partito.
Distolgo lo sguardo dal gioiello, frustrata, e continuo la mia ispezione: sulle spalle indosso un peplo scarlatto con frange e ricamato dorati mentre ai piedi porto i miei sandali più belli, fatti in cuoio e con un sistema di cinghie che arriva fino al ginocchio.
I capelli, invece, sono stati pettinati e districati per poi essere raccolti sulla nuca in un'acconciatura elegante e complicata con mille trecce tenute ferme da un diadema che lascia sfuggire due morbide ciocche, arricciate alla perfezione ai lati del viso.
La pelle di quest'ultimo è resa priva d'imperfezioni e diafana da un pesante strato di biacca mentre sulle guance vi è stesa una leggera spolverata di rosso, ricavato dal minio, e applicato in dose più consistente anche sulle labbra. Infine, ciglia e sopracciglia, solitamente bionde e quasi invisibili, sono rese lunghe e nere dall'antimonio.
La ragazza che vedo riflessa non sembro nemmeno io, ma piuttosto una bambola da esposizione.
Distolgo lo sguardo dallo specchio, schifata, per poi posarlo su mia madre che, appena entrata, mi guarda soddisfatta e con occhi lucidi dall'emozione:
<<Sei splendida tesoro, non ho mai visto una dama tanto bella in tutta Atene, se non sapessi per certo che sei la mia Myrina penserei che tu sia Afrodite!>>
<<Grazie, mamma>> rispondo, per niente lusingata <<anche se in realtà mi sento la statua di Atena che viene addobbata per un rito religioso>> sento le mie parole come lontane, il tono monocorde, mente ripenso a tutta la pena che mi ha sempre fatto quella povera scultura all'interno del Partenone, ricoperta da teli preziosi e gioielli. Mi sono sempre chiesta a cosa mai servisse deturpare in quel modo una statua tanto bella già di suo.
Ha un ché di ironico pensare che ora mi ritrovo ridotta come lei.
Vengo riportata alla realtà dal bonario rimprovero di mia madre:
<< Cara, non essere irrispettosa! È un modo come un alto per rendere grazie alla protettrice della nostra città. -mi fa un segno di andare, muovendo il braccio, con l'eleganza di una danzatrice- E ora vieni dai, che gli ospiti ci attendono>>
E con questo si incammina giù per le scale con me dietro che la seguo come un condannato a morte segue il proprio boia verso il patibolo.

Durante il percorso mi spiega, visibilmente eccitata, che gli ospiti tanto attesi sono l'arconte basileus e suo figlio per poi prodigarsi  ad elogiare la bellezza e tutte le presunte qualità del ragazzo, senza dimenticare di rivolgermi mille raccomandazioni.
Ascolto distrattamente i primi due minuti del suo sproloquio per poi perdermi definitivamente nei miei pensieri, rivolgendo uno sguardo distratto ai mosaici e affreschi che tanto amo e ai servi che corrono indaffarati con numerosi piatti traballanti e traboccanti di squisite pietanze. Mi accorgo di essere ormai giunta a destinazione solo perché mia madre finalmente si zittisce.
La osservo schiarirsi la voce e raccogliere le mani raffinatamente ingioiellate in grembo mentre le porte della sala dei banchetti vengono aperte lentamente da due schiavi.
Sposto lo sguardo sullo spiraglio che si espande rapidamente rivelando un tripudio di oro ed arazzi.
Alzo il mento.
Bene, si va in scena.

~✨Angolo autore~

Ciao a tutti, questo è un capitolo abbastanza di passaggio ma spero vi sia ugualmente piaciuto.

Sentitevi come sempre liberi di commentare e sarebbe molto carino e gentile se votaste nel caso in cui questo racconto vi piacesse. Thanks (^.^)

Bye bye, al prossimo capitolo
Chiara e Sele

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