Capitolo 2 - Accetto

253 17 2
                                    

Avevo scoperto il motivo per il quale tra tante persone avevano scelto me: nessuno faceva domanda per lavorare in un ospedale psichiatrico.
Persino per svariati motivi: chi aveva paura, chi non si sentiva adeguato, o chi semplicemente non voleva stare in mezzo ai pazzi.
Erano le stesse ragioni che mi stavano urlando nella testa di scappare a gambe levate da quel posto.

Mentre continuava a spiegarmi quello che avrei dovuto fare, se avessi accettato, ci incamminammo al piano di sopra, arrivammo alla porta che si poteva aprire solo dall'esterno, per uscire bisognava avere le chiavi, che ovviamente mi avrebbero dato, per non far scappare, come in passato era già successo, i pazienti.
"Spero che non ti spaventerai" sussurrò il signor Smith aprendo la porta.
Aggrottai le sopracciglia, varcando la soglia ed entrando in una specie di salotto, molto accogliente, dove i pazienti guardavano la tivù, giocavano a carte o ballavano sentendo le note di una musica inesistente.

Appena mi videro bloccarono ogni attività e incominciarono a fissarmi, mentre qualcuno si alzava e mi veniva incontro "non ti agitare, non ti faranno niente" lo guardai di sbieco.
Per lui era facile parlare.
"Chi sei?".
"Sei pazzo anche tu?".
"Come ti chiami?".
"Giochi a carte con me?".
Tutte quelle domande, tutte insieme "ehm...s-sono Alexander" balbettai cercando una via d'uscita.
Fortunatamente Bobby mi salvò, chiedendo ai pazienti di non importunarmi, mi sorpresi quando lo ascoltarono e ritornarono ai loro posti, riprendendo, come se niente fosse successo, a fare quello che stavano facendo prima che li interrompessimo.

Uscimmo dalla sala e mi ritrovai in un corridoio estremamente lungo "al piano di sopra, che non ti faccio visitare perché non c'è nulla da vedere" proferì il direttore "ci sono le camere, il coprifuoco è alle 21.00, ma l'orario alcune volte non viene rispettato perché i pazienti vogliono vedere dei film, in tal caso chi vuole vedere la tivù rimane alzato, con ovviamente qualcuno che li controlla, invece gli altri vanno a dormire".
Annuii, credevo che le regole negli ospedali fossero più rigide, ad esempio, cena alle 18.00, a letto alle 19.00 e colazione alle 7.00 e punizione per chi non rispettava gli orari.
"Da questa parte" disse indicandomi la parte sinistra del corridoio "c'è la mensa, in cui tu dovrai imboccare i pazienti non autonomi e magari riuscire a chiacchierare un po' con loro e invece da quest'altra parte" esclamò tirandomi per un braccio lungo la parte destra del corridoio "ci sono le altre sale in cui facciamo svariate attività".
Mi fece vari esempi di come intrattenevano gli utenti: dipingevano, cantavano, discutevano della vita, facevano passeggiate nell'ampio cortile nel retro dell'edificio, leggevano giornali e parlavano di quello che succedeva nel mondo.

Sorrisi, incominciando a pensare che forse la gente giudicava un po' troppo superficialmente quei posti.
Io li avevo sempre considerati come una prigione, chi vorrebbe vivere in un luogo del genere?
Il salotto che avevo visitato all'ingresso, mi spiegò Bobby, era quello della merenda, dalle 15.30 alle 16.30 si faceva una pausa e si mangiava qualcosa e i pazienti, per un'ora, diventavano autonomi e facevano quello che volevano, sempre con la supervisione di qualche infermiere.
E sempre nello stesso orario, il venerdì, i pazienti potevano ricevere le visite dei parenti.

"Ovviamente le giornate non sono sempre tranquille, anche a loro, come a tutti, capita di avere la luna storta e allora capisci perché si ritrovano in questo posto" espirò guardandomi, una velo di tristezza a coprirgli gli occhi.
"E' da quasi trent'anni che lavoro qui e delle volte mi chiedo perché Dio sia così crudele, perché faccia questo alle persone".
Sospirai, la vita era così ingiusta.
Io mi lamentavo perché non potevo permettermi un cellulare nuovo, mentre quelle persone erano costrette a vivere in quelle condizioni, con la malattia che gli divorava il cervello e la ragione.

Ad un tratto, un urlo.
Mi girai di scatto, lievemente intimorito, e vidi una figura, a testa bassa che gridava di non toccarlo, trattenuta da due uomini, uscire dall'ascensore, e dirigersi a passo spedito verso di noi.
Bobby mi premette una mano sulla schiena, invitandomi ad avvicinarmi "che succede?" chiese guardando il paziente.

Guardai il ragazzo, anche se non riuscivo a vederlo in viso, dato che teneva la faccia rivolta al pavimento, mi sembrava molto giovane, indossava una felpa molto pesante, nonostante lì dentro non facesse per niente freddo.
Cercai di trattenermi dallo scuotere la testa vedendo quel tipo, con tutta la vita davanti, ridotto a stare in un posto del genere.

"Si era chiuso in camera e ha messo una sedia sotto la maniglia per non farci entrare, oggi a pranzo ha mangiato pochissimo, quindi dovrebbe almeno fare la merenda" disse uno dei due uomini in camice bianco.
Smith annuì, mentre invece il ragazzo scuoteva la testa "Toby, perché non vuoi mangiare?" chiese, mentre io esaminavo la scena, cercando di studiare i comportamenti che avrei dovuto adottare per interagire con i pazienti.
"Non ho fame" disse duramente alzando lo sguardo, lasciandomi senza fiato, puntando i suoi occhi color miele, così inespressivi e vuoti, dritti in quelli del direttore.
"Ma devi mangiare" disse dolcemente uno dei due infermieri.
"No" esclamò deciso.
"Toby, devi mangiare" ripeté di nuovo un po' più duramente.
Annuì lievemente, poi sbottò "mangerò, e poi ti vomiterò addosso!" urlò incominciando ad agitarsi, cercando di divincolarsi dalla presa ferrea dei due uomini.
I due signori scossero a testa, trascinando il ragazzo nella sala di merende, lui continuava a sbraitare di lasciarlo andare, di smetterla di toccarlo.

Bobby mi guardò e ridacchiò divertito, dovevo avere una faccia leggermente scioccata se aveva avuto quella reazione "come ti ho detto: delle volte, i pazienti, hanno la luna storta".
Sorrisi anche io cercando di non trasmettergli che mi ero un po' innervosito vedendo quella scena.
Ma sicuramente l'aveva capito lo stesso.

"Allora" esclamò battendo le mani e strofinandosele "è da quasi un'ora che sei qui, ho bisogno di una risposta" disse tirando fuori dalla borsa, che portava a tracolla, dei fogli che avrei dovuto firmare.
Ripensai a tutto quello che c'eravamo detti.
Un contratto a tempo determinato, finché il signore che aveva avuto quell'incidente si fosse ripreso.
Cinque giorni alla settimana, dalle 9 del mattino alle 6 di sera. 9 ore, tra cui una di pausa e un pranzo gratis che avrei fatto con i pazienti.
1300 dollari al mese.
Guardai verso la porta dove era sparito il ragazzo, Toby.
"Accetto" dissi prendendo la penna che mi stava porgendo.

INSANEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora