La Storia Di Toby (Pt. 1)

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Spazio Autore (primo in assoluto)

Okay, all'inizio la storia doveva essere tutta sotto il punto di vista del nostro carissimo Alexander. Ho pensato, successivamente, che questii due capitoli parlassero della storia di Toby e la dovrebbe raccontare lui, così mi ci sono messo sotto e ho riscritto questo e il capitolo successivo sotto il suo punto di vista.
Spero che comunque vi piaccia :D

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Toby POV


"Okay, rimango se mi racconti tutto" concordò, passandomi prima le mani sulle guance per asciugarmi le lacrime.
Arricciai il naso a quel contatto indesiderato e strinsi le dita sui suoi fianchi, cercando di scaricare la tensione.
Alexander, passò i suoi palmi – ormai rossi – sulle mie braccia, una seconda volta.
Feci una smorfia e guardai le sue mani.
Quanto mi sarebbe piaciuto provare qualche sensazione sotto quel tocco delicato, ma non sentivo niente, ero una macchina fredda e senza emozioni: un robot.
Ma i robot non piangono e non corrono ad abbracciare qualcuno per paura di perderlo.
Mi allontanai bruscamente da lui, infastidito dal fatto che non avrei mai potuto assaporare il calore della sua pelle contro la mia.
Era una maledizione quella malattia che avevo.
Mi avvicinai al comodino e diedi le spalle al ragazzo, per andare a prendere le bende con cui avrei fasciato braccia e gambe.
"E queste?" domandò guardandomi la schiena. "Non puoi essertele fatte da solo" intuì.
"Infatti" ammisi, sedendomi poi sul letto e incominciando a fasciare una gamba, sporcando le lenzuola bianche di rosso.
"Sembrano segni di..." lo sentii deglutire e poi finalmente lo disse: "...frustate".
Sorrisi amareggiato.
"Già, questo è il mio primo segreto" confidai ironico.
"Racconta" mi esortò, sedendosi poi al mio fianco.
"Oh, non c'è molto da dire" incominciai, finendo di bendarmi l'arto insanguinato.
"Forza, appoggia qua il piede, faccio io" disse indicando l'altra gamba.
Obbedii, appoggiando il piede sul letto, e gli porsi la garza.
Lo guardai lavorare in silenzio per qualche secondo, pensando che stavo per rivelare dei segreti che solo poche persone lì dentro conoscevano.
D'altronde se volevo che rimanesse avrei dovuto dargli qualcosa in cambio: la verità, in cambio della sua presenza.

"Sono nato a Richmond, nella Virgilia, non ricordo nulla di quella città perché ci rimasi pochissimo. A causa mia ci siamo dovuti trasferire qui a Williamsburg.
I medici avevano capito subito che c'era qualcosa che non andava in me.
Quando sono nato non ho pianto e mi hanno sottoposto a degli esami diagnosticandomi una malattia rarissima" sospirai passandomi le mani sulla faccia, mentre lui mi osservava.
Aveva interrotto il suo lavoro da medico provetto e teneva le mani appoggiate al mio ginocchio.
Poi annuì, esortandomi a continuare.
"Ci siamo trasferiti qui perché molti anni fa c'era stato un altro caso come il mio e i miei genitori credevano che i dottori avrebbero potuto aiutarmi a guarire.
Le cure mediche costavano tantissimo e i soldi che prendeva mio padre erano pochissimi, così mia madre per arrotondare e pagare i dottori andò a vendere il suo corpo. Ma non bastava".

Guardai Alexander, aveva finito di bendarmi la gamba e ora si stava occupando di un braccio, disinfettò i tagli minuziosamente ed evitava di incrociare i miei occhi per non farmi sentire a disagio.
Sorrisi, ringraziandolo mentalmente.

"Ad un certo punto ci rinunciarono. Avevo dodici anni e decisero di smetterla con le cure, perché non stavo avendo nessun miglioramento e anche perché non riuscivamo ad arrivare a fine mese.
Nonostante non avessimo più le spese mediche i miei non riuscirono a ristabilizzarsi dal punto di vista economico, e lo stress accumulato negli anni, il dolore causato dalla mia malattia fece impazzire mio padre, che divenne un ubriacone violento, e mia madre continuò a prostituirsi".

"Toby, cosa sono questi lividi?" chiese mia madre sfiorandomi uno zigomo e il labbro.
"I miei compagni di scuola mi hanno picchiato" dissi, scuotendo le spalle con noncuranza.
"Senti dolore?" domandò speranzosa.
Le sorrisi dolcemente "sai che non posso provarlo" sussurrai. Lei posò un bacio tra i miei capelli e mi ordinò di fare i compiti.
Sotto la sua supervisione e il suo sguardo carico di tenerezza e amore mi diedi da fare e studiai. Finché mio padre tornò a casa.

"Ero in camera mia quando sentii sbattere la porta d'ingesso" raccontai, ricordando ogni dettaglio di quelle notti, che da troppi anni ero costretto a vivere.
Ogni sera la stessa storia, mia madre andava a lavoro e mio padre ritornava a casa completamente sbronzo.
"Quella sera mia madre non era ancora uscita per andare a prostituirsi, era ancora in casa perché avevo avuto dei problemi e continuavo a vomitare e mio padre rientrò in casa".

Rigurgitai anche l'anima nel lavandino, non capendo il perché di quell'improvviso attacco. Mia madre era seduta sul bordo della vasca e mi fissava preoccupata, non curandosi del fatto che avrebbe già dovuto incominciare a lavorare.
Una volta finito le sorrisi e mi diressi nella mia camera, mentre lei andava a preparare una camomilla, mi sdraiai sul letto e incominciai a fissare il soffitto, fu in quel momento che mio padre rincasò, sbattendo violentemente la porta d'ingresso.
Mi drizzai a sedere, spalancando gli occhi, il respiro si fece affannoso e irregolare e pregai, pregai che non sarebbe successo nulla.
"Troia, che cazzo ci fai ancora a casa?" lo sentii sbraitare contro mia madre.
Scesi dal letto e mi accostai alla porta e mi appoggiai allo stipite, cercando di captare quando quell'uomo avesse cominciato a dare di matto.
"Toby sta male" si difese lei.
Riuscivo a percepire il tremolio nella sua voce.
"Me ne frego se quello scherzo della natura sta male, ora fai il tuo lavoro da puttana!" urlò.
Sentii qualcosa frantumarsi per terra e mia madre che incominciava a strillare, non pensai più, agii e basta.
Entrai in cucina e lo guardai, l'aveva spinta contro il muro e teneva un braccio premuto sulla sua gola, immobilizzandola, una mano era scesa in basso, intrufolandosi sotto la gonna.
Con due falcate lo raggiunsi e lo presi per le spalle, tirandolo, con tutta la forza che possedevo, all'indietro.
"Brutto bastardo" insultai rabbioso, tirandogli un pugno e ferendomi le nocche, ma non me ne curai, io non sentivo nulla.
"No Toby!" esclamò mia madre tra le lacrime. Tirai un altro gancio destro a quell'uomo che non poteva essere definito tale.
Lo colpii con tutta la rabbia e la frustrazione che mi scorrevano nelle vene.
Il sapere che lui poteva provare dolore e io no, era l'unica cosa che mi spingeva a proseguire, con calci, gomitate, ginocchiate.
Anche lui mi colpiva e io ridevo, ridevo come un pazzo con il volto insanguinato perché il dolore non mi scalfiva.
Fino a che mia madre mi prese per le spalle e mi allontanò da quell'uomo, quel marito che ancora amava, nonostante tutto e io non comprendevo.
Come si poteva provare affetto per un mostro?
"Toby, non immischiarti!" urlò tirandomi uno schiaffo.
E quella volta provai dolore, non fisico.
Era come se una morsa mi stringesse il petto, come se mia madre avesse il mio cuore in mano e lo stesse stritolando ribadendomi che io ero solo un bambino, che quelli erano affari da adulti.
Che non potevo capire.
Ci alzammo in piedi, tutti e due.
Mi guardò in un modo che mai avrei dimenticato: puro odio.

Alexander mi guardava esterrefatto. "Poi cos'ha fatto?" chiese intuendo che la storia non era ancora finita.
Sorrisi, un sorriso triste, più simile ad una smorfia. "Ha detto che me l'avrebbe fatta pagare" dissi risoluto.
Lui annuì "e ti ha fatto queste cicatrici" capì. Appoggiò una mano sulla mia schiena e saggiò la consistenza di quelle ferite ormai rimarginate.
Fui io ad annuire "ma io non posso provare il dolore, quindi decise di ferirmi in un altro modo" sussurrai.
La sua mano fermò quella carezza e timoroso domandò "quale?".
Gli presi una mano e la poggiai sul mio petto "colpendomi qui dentro" confidai.
Sì, perché mio padre aveva fatto di tutto per farmi sentire in colpa per quello che gli feci, fino ad arrivare ad un punto estremo di non ritorno.
"Cosa ha fatto?" chiese in un bisbiglio, la mano appoggiata la petto.
"Ha rapito la sorella del mio migliore amico". Eccolo lì, il secondo segreto, quello che confermava che avevo vissuto con un mostro, quello di cui mi vergognavo terribilmente.
A causa di quel segreto, ero diventato io stesso un mostro.
"Sai Alex, c'è un motivo se mi chiamano assassino" rivelai guardandolo negli occhi.
Per la prima volta lo fissai direttamente in quelle iridi e mi ci persi dentro.
Provai il repentino desiderio di intrufolarmi in quel labirinto, formato da quelle screziature dorate, per arrivare alla sua mente e scoprire cosa stesse pensando di me in quel momento. Se paura o compassione, o altro.
Lui ricambiava il mio sguardo, mi perforava quell'anima sporca e corrotta, come se fossi trasparente, limpido, pulito.
Avrei voluto essere in lui, per capire quello che stava vedendo e percepire le sue sensazioni.
Vidi il mio viso riflesso lì dentro, come se fossi in un'altra dimensione, dove il mare può essere verde e il cielo viola, sorrisi, pensando che da bambino avevo davvero dipinto il cielo di viola, invece che di azzurro.
I suoi occhi mi stavano attraendo incondizionatamente e forse lui lo capì, perché il suo sguardo si abbassò.
Lo fissai, come avevo fatto per tutto quel tempo, che parevano ore, invece erano solo pochi secondi, sembrava pensieroso.
Quando i suoi occhi si sollevarono, si riappropriarono dei miei, con incredibile facilità e arrendevolezza.
Com'era possibile che un paio di occhi mi facessero questo effetto?
Sospirò.
"Perché ti chiamano così, Toby?" chiese stupidamente, conoscendo già la risposta.
Sorrisi e quella volta fu lui ad osservarmi e volle non smettere di farlo.
Volevo sorridere per il resto della mia vita, se questo significava avere i suoi occhi su di me.

"Perché lo sono".

INSANEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora