Lunedì 20 gennaio 2015, il mio primo giorno di lavoro, ero talmente nervoso che mi si era chiuso lo stomaco e fissavo la mia colazione con una smorfia disgustata a dipingermi il volto.
Ma stranamente non mi ero pentito di aver acconsentito all'offerta propostami dal direttore Smith, ero solo incredibilmente agitato e con una strana sensazione di inadeguatezza che faceva abbassare la mia autostima.
Venni accolto dalla sorridente donna dalla voce nasale, Catherine mi pare che si chiamasse, che mi diede il mio mazzo di chiavi personale da tenere appeso al collo o alla cintura.
Mi spiegò che gli infermieri erano vestiti di bianco, mentre gli altri colleghi si vestivano normalmente e avevano un cartellino con scritto il proprio nome per farsi distinguere e per non scambiarli per i pazienti, cosa alquanto impossibile, pensai, ma era meglio così, la mia memoria con i nomi non era mai stata efficiente e mi sarebbe solo bastata un occhiata al cartellino appeso alla maglietta per non fare figuracce.
Mi disse di avere sempre a disposizione un cambio d'abito, non ne capii il motivo ma registrai l'informazione ricordandomi l'indomani di portare pantaloni e maglietta.
Mi accorsi che faceva incredibilmente caldo lì dentro e così mi tolsi la felpa, me la legai in vita, restando con le maniche corte.Passò quasi mezz'ora in cui la donna, che avevo scoperto essere molto simpatica e disponibile, mi fece vedere le foto dei pazienti e mi spiegò che tipo di malattia avessero e come avrei dovuto comportarmi.
"E lui che cos'ha?" chiesi prendendo la cartella del ragazzo che la settimana precedente aveva attirato la mia attenzione.
Non mi accorsi dello sguardo allarmato di Catherine e lessi velocemente i primi dati.
Nome: Toby, James
Cognome: Turner
Nato a: Richmond, Virginia Il: 15 agosto 1993.Cazzo, quel ragazzo aveva la mia età.
Data di ricovero: 11 maggio 2009.
Porca puttana, imprecai di nuovo tra me e me, era in quel posto da sei fottutissimi anni.
Patologia: Nevrosi. Depressione. Disturbi dell'umore.
In fondo alla pagina, scritto a penna da un dottore, vi era una frase: manifesta disagio durante il contatto fisico.
Vidi Catherine scuotere il capo affranta. "Tutta colpa di suo padre" mormorò, per poi sigillarsi la bocca, come se avesse svelato chissà quale segreto.
Aggrottai le sopracciglia e feci per ritornare a leggere il fascicolo, ma la donna me lo tolse dalle mani con un gesto fluido, riponendolo dentro il cassetto a fare compagnia a tutti gli altri, chiudendolo poi a chiave.
Sbuffai internamente, volevo sapere quello che gli era successo.
Dopo altre due ore spese a parlare del lavoro e dei pazienti mi lasciò andare e con calma mi diressi al piano superiore.
Mi immobilizzai davanti alla porta che si poteva aprire solo dall'esterno e incominciai a torturarmi le dita facendole scrocchiare fastidiosamente.
Quando finalmente ebbi recuperato un po' di coraggio abbassai la maniglia e tirai.
Entrai nel salotto quasi deserto se non per due infermiere e altri due colleghi, sicuramente in pausa, che mi riservarono dei sorrisi che avrebbero dovuto essere d'incoraggiamento.
Ricambiai i sorrisi cordialmente, mentre una donna con il camice bianco mi suggerì di andare nell'altra stanza.Obbedii uscendo dal salotto, ce ne erano una decina di stanze, ma capii immediatamente in quale dovevo andare, sentivo la dolce melodia di una chitarra classica e mi incamminai nella sala di musica.
La riconobbi subito, sulla porta c'era appeso un foglio con disegnate delle note musicali e delle chiavi di violino.
Bussai e la musica cessò.
Aspettai che mi invitassero ad entrare e varcai la soglia.
Com'era successo la volta precedente tutti si immobilizzarono incominciando a fissarmi, tranne quelle poche persone che vivevano nel loro piccolo mondo e non si erano nemmeno accorti che la musica era terminata e continuavano a fissare il vuoto incessantemente o a parlare con amici immaginari.
"Signori" esclamò un collega, con in braccio una chitarra, attirando l'attenzione con un battito di mani "lui è Alexander e per un po' starà qui con noi, dategli il benvenuto".
Guardai i pazienti uno per uno, c'era chi mi fissava, chi mormorava dei flebili 'ciao' e chi non mi guardava nemmeno per sbaglio, ricollegai le loro facce alle foto nei fascicoli letti poco prima.
Finché il mio sguardo si fermò in fondo alla stanza.
Quel ragazzo era seduto davanti a un pianoforte verticale, di un nero incredibilmente lucido che ci si poteva specchiare, e muoveva le dita sfiorando i tasti bianchi e neri, ma non li premeva e quindi non emetteva suono, faceva solo finta di suonare.
Mi costrinsi a distogliere l'attenzione e mi sedetti su una sedia a fianco ad un uomo sulla quarantina che aspettava impaziente che la musica riprendesse.
Quando il mio collega riprese a suonare, l'uomo si rilassò e si girò verso di me "sono Samuel, ma puoi chiamarmi Sam" sussurrò tendendomi la mano destra, aveva uno strano tic all'occhio sinistro che ogni cinque o sei secondi si chiudeva e riapriva di scatto. Ricambiai la stretta sorridendogli gentilmente "ciao Sam io sono Alexander", nella foto che avevo visto nel suo fascicolo sembrava molto più vecchio, malnutrito e evidentemente ammalato, ora sembrava godere di ottima salute.Quando l'attività finì era già ora di pranzo e tutti lasciarono l'aula, chi di sua spontanea volontà e chi invece accompagnato da un infermiere.
Tutti tranne due: Sam, che stava sistemando le sedie e Toby, che restava seduto davanti al pianoforte.
"E' ora di pranzo" esclamai cercando di attirare la sua attenzione, ma tutto quello che ottenni fu una leggera scrollata di spalle.
"Lascialo perdere, è strano" mi consigliò Sam avvicinando l'indice alla tempia e picchiettandolo sopra tre o quattro volte, come a farmi capire che era pazzo "e non provare a parlargli, lui non parla con gli sconosciuti" ridacchiò e vedendo che avevo fatto un paio di passi in avanti continuò "non avvicinarti, potrebbe ucciderti" mormorò teatralmente abbassando la voce di un paio di toni.
"Toby, sei ancora qua?" chiese Bobby Smith entrando nella sala e salutandomi con un cenno del capo "devi venire a mangiare".
Di tutta risposta premette un dito su un tasto bianco facendo riecheggiare nella stanza ormai vuota una nota che non avrei saputo definire, non me ne intendevo di musica, ero solo discretamente intonato.
Poi finalmente si alzò in piedi e uscì dalla stanza seguito da Sam, il quale se ne stava a debita distanza, quasi avesse paura.
"Pranza con lui" mi consigliò il direttore grattandosi la barba distrattamente "credo che abbia bisogno di avere persone giovani attorno, qui superiamo quasi tutti i quaranta!" sdrammatizzò.
Entrai in mensa, c'era un chiasso assurdo, mi sembrava di essere ritornato alla scuola elementare, mentre si aspettava con impazienza che le cuoche portassero il pranzo, invece di parlare normalmente, si urlava.
Mi sedetti al suo fianco e incominciai ad osservarlo con la coda dell'occhio, gli altri pazienti, seduti al tavolo con noi, mi scrutavano curiosamente, mentre continuavano a parlare tra di loro a voce estremamente alta.
Quando il pranzo fu servito le chiacchiere scemarono lasciando come sottofondo lo stridere delle forchette sui piatti.
Toby però non mangiava, se ne stava seduto compostamente sulla sedia, con la schiena dritta e le braccia incrociate e guardava il cibo senza vederlo realmente.
Che dovevo fare?
Era mio dovere assicurarmi che si nutrisse, venivo pagato per quello dopotutto, guardai il mio collega, seduto al mio stesso tavolo, chiedendo consiglio con gli occhi e con un cenno mi diede la conferma di parlargli.
Con un po' di sicurezza nel sapere che non stavo sbagliando mi voltai verso di lui e mi schiarii la voce "non hai fame?" chiesi discretamente.
Sentii le altre persone al tavolo trattenere il fiato e guardarmi quasi spaventati.
"Non parlargli" disse una signora "è pazzo". Roteai gli occhi finché Sam rispose a quella donna "anche tu sei pazza, altrimenti non saresti qui".
"Non ascoltarli" disse un altro signore "lui non è pazzo, è un assassino".
Spalancai gli occhi, era la stessa cosa che mi aveva detto Sam nella stanza di musica, ma sembrava stesse scherzando.
Toby si irrigidì al mio fianco prendendo il bicchiere e lanciandolo con un gesto stizzito per terra, fortunatamente era di plastica e non si ruppe, ma l'acqua schizzò da tutte la parti.
Tutti si ammutolirono, mentre l'uomo che aveva parlato si faceva piccolo piccolo sulla sedia, con un'espressione di puro terrore negli occhi. Guardai Toby: aveva uno sguardo furibondo e si stava visibilmente trattenendo dal non urlare contro quell'uomo.
Non sapevo come comportarmi, ma fortunatamente un collega mi salvò prendendolo per un braccio e trascinandolo fuori "l'isolamento ti aspetta" lo sentii esclamare prima che la porta si chiudesse con un tonfo sordo.
"Non toccarmi, cazzo!" lo sentii urlare al di là del muro.
Mi lasciai andare scompostamente sulla sedia, tirando un sospiro di sollievo.
Non male come primo giorno e non era ancora finito.
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INSANE
RomanceTrasferitosi in una nuova città, Alexander decide di cercare lavoro per aiutare la famiglia. Manda curricula ovunque, ma si ritrova a lavorare in un ospedale psichiatrico all'avanguardia. Toby è un ragazzo disturbato che odia il contatto fisico, paz...