Ritratto

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Avvertenza: è un capitolo un po' forte. Per chi ha perso qualcuno di caro da poco o non, potete decidere voi di leggere o meno. A voi la scelta.
Leggete lo spazio autore, è importante, thanks.

Bevvi un sorso di caffè, Stefano si era fatto un tè. Era pomeriggio inoltrato, e sebbene ogni minuto rintoccasse negli specifici sessanta secondi, mi sembrò utopico pensare che il tempo si fosse appesantito, che di tocchi ne avesse aggiunti altri, che la giornata si sarebbe dilungata più del previsto.

"L'appartamento è ipotecato?" mi chiese Stefano, poi ne sorseggiò poco, rumoreggiando con le labbra a contatto col tè caldo. Era alla menta.

Annuii, posando la tazza ormai vuota nel lavandino. Il rubinetto faticò a far sgorgare l'acqua, che poi si limitò a eliminare i residui di caffè nella tazzina. "La smetti di bere come un cavallo?" irruppi qualche secondo dopo, dato che Stefano non accennava a smettere di risucchiare il tè, cioncando con voracità.

"Non ho mai assaggiato un tè così buono" si giustificò, leccandosi i lembi delle labbra ancora umidi e al sapore di menta.

"Sei senza pudore" gli feci notare, non che lui già non ne fosse a conoscenza.
Incurvò le sopracciglia, ritraendosi offeso; se prima potesse ricordare l'Assenzio di Degas, adesso pareva più un cane bastonato.

"Non mettere il muso, sai che non funziona con me"

Erano le tazzine regalatemi da mia madre; quelle dipinte da degli artisti veneziani, un po' tradizionali. L'impronta di una gondola ne difendeva la provenienza, il marchio. Stefano, beffardo, la lasciò oscillare tra la sua mano e il pavimento, sapendo che mi sarei allarmato.

"Perché non ti siedi e non mi spieghi questa foto, è l'ultima volta che te lo chiedo" mi minacciò, spiattellandomi la polaroid in faccia. Ed ero alle strette, perché se non gli avessi detto cos'era successo, sarebbe stato capace di lasciar scivolare la tazza a terra. Era già successo.

"Non sono obbligato a dirti tutti i dettagli" ribattei, ma il ragazzo non si scoraggiò, sbeffeggiandomi; quella risatina maligna che quasi non si sentì mi fece venire la pelle d'oca.

"Ti conviene iniziare a parlare"

Avevo iniziato per gioco o scherzo, poi si era finto offeso, soltanto in modo tale da cogliere la palla al balzo, aveva ribaltato la situazione, e infine mi aveva chiesto cos'era successo dopo quella fatidica giornata di pioggia, quando io e l'altro - di cui non riuscii a pronunciarne il nome - ci eravamo abbracciati sotto ad un ombrello, senza dirci nulla, senza che si chiedesse.
Stefano era intelligente, furbo, ma soprattutto intelligente.

"Niente segreti tra di noi, giusto?" gli dissi, prima di raccontargli la mia versione dei fatti.

Era parso un dipinto. Una tela, tonalità di grigio e bluastro si erano conformati al paesaggio piovoso. Il solito cliché dei film per ragazzi; i due innamorati non sanno di esserlo, non sanno cosa sono, non si conoscono e non sono amici, ma in qualche modo si attraggono e si respingono e non sanno fare altro.

"Stai bene?"

"No"

"Neanche io"

E poi sotto a quell'ombrello, era proprio così difficile pensare che fosse stato reale. Mi ero ricreduto, non appena entrati nell'appartamento, sentendomi la testa scoppiare, la fronte più calda del solito, e il naso ai lati violaceo a causa dei fazzoletti - erano davvero ruvidi - avevo realizzato che non mi ero preso solamente l'influenza.

"Non hai una bella cera" mi aveva detto, tamponando il volto, ancora umido, con l'asciugamano che gli avevo prestato. Me lo aveva porto poco dopo, così mi ero immerso tra il profumo del detersivo e il suo, che tra l'altro la pioggia aveva disparso nell'aria.

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