Capitolo 13: Cosa sai di me? pt.1

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"Lascia la pistola a terra" gli intimai, prima che uno dei due si sarebbe potuto nuocere. Teneva tra le mani tremolanti l'arma, le dita sfiorarono diversi attimi il grilletto. La pallottola non tardava, sarebbe scoppiettata come fossero fuochi d'artificio, incendiava l'arma, sfregandola tra le nocche, perché aveva paura.

"Io lo amo, io non posso continuare così" biascicò a stento, parve all'esalare l'ultimo respiro, che gli era rimasto in gola, succube del fatto che taceva, perché pensava fosse meglio tacere. Ed era scoppiato, così come le pallottole nei campi di guerra, tra le fosse, tra le trincee.
Era una guerra di auto-logoramento.

"Invece sì, non è tutto finito. Non tutto è così orribile, non tutto è come la pensi tu, non deve per forza finire in questo modo"
La verità era che avevo anch'io paura, perché entrambi ci eravamo persi. C'era da capire se volesse uccidermi o uccidere se stesso. La pistola ancora puntava nella mia direzione.
"Lorenzo, ti prego, mettila giù"

"Sai, per tutti questi anni ho pensato che fosse colpa mia..." sussurrò, c'era sangue, quasi trasparente, che colava dal ventre, l'avevo ferito. La sciabola, tra le mie mani, picchiettava, strisciando sul fuoco rovente dei carboni. "E invece, guardaci, la colpa è tua. Tu, che non mi hai fatto vivere, tu..."

Le risate. Lorenzo non rideva spesso. Mi fece agitare, era all'esasperazione. Era al culmine della follia che si portava dentro, che si era trasformato nel suo incubo. Perché Lorenzo faceva sempre il solito incubo: squartato da qualcuno che fosse uno dei suoi cari.
Lorenzo aveva paura del tradimento, tanto che si era deciso ad agire. Li avrebbe fatti fuori tutti prima lui.

"Pietro non l'avrebbe mai voluto" e fu l'errore.
Delle parole non mi pentii, ma del suo sguardo, quegli occhi lavici, infuocati, che parevano essere stati immersi nell'Inferno, punti dal fuoco di anime ignave, ne sentii la pressione.
E bruciai non appena il proiettile invisibile mi perforò le costole, e dritto, o quasi, al cuore.

"Non potrai più nominarlo adesso"

Il funerale si sarebbe celebrato soltanto a sera.
La bara sarebbe stata d'argento, incorniciata da azulejos, dipinto un fiore al margine. Il giglio, puro e bianco. Si sarebbe celebrato se tutto non fosse stato altro che una finzione.

"Ora posso rialzarmi da terra?"
Il gioco era terminato. C'erano due scelte: salvarsi o morire. A quanto pare, ero carico dalla brama di tragicità, perché sennò avrei preferito la vita. Quand'è finzione, la morte sembra il rimedio migliore per terminare una storia.

Lorenzo tese la mano, mi fece rialzare a sé, mi abbracciò, come se la finzione fosse realtà.
Si strinse a me, si aggrappò alle clavicole, si contorse a me, tra le mie braccia, le mani che si univano alle scapole. Sentivo lui, e tutto ciò che poteva offrirmi era tutto ciò che mi bastava.
"Non so cosa farei se tu morissi davvero" pigolò minuto, lasciò la pistola - la banana acerba - a terra.

"Ora non possiamo più mangiare la banana"

Scoppiammo a ridere entrambi. Il filo rosso si sciolse qualche istante dopo. "E fatti una doccia, puzzi di tè e miele, orribile"

"Il tè con il miele è come il latte con il caffè, inseparabili, inscindibili"
Imbronciato, fece l'offeso. Di Lorenzo si sapeva che odiava i giudizi, anche quelli più superficiali. E poi quando amava, si faceva sottomettere dai giudizi e taceva. Non accettava che le sue relazioni fossero tossiche, così trasfigurava la realtà in ciò che più gli pareva.

"Mischiato al tuo fetore non è che sia, come posso dirlo senza insultarti, gradevole, ecco" risposi a suon di ironia. Era divertente burlarsi di lui se era una gioco. Poi quando non lo era, non si rideva affatto.

"È incredibile che riesci a fiutarmi, sai, sei nano, al massimo raggiungi la suola delle mie scarpe" concluse, sferrandomi un colpo potente dritto al cuore. L'altezza, era vero, e lui era veramente. Non sapevo descriverlo.

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