2. Victim

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And some say this can't be real

And I've lost my power to feel, tonight

We're all just victims of a crime

Fu l’odiato impulso di fare la pipì a farmi aprire gli occhi. Ma, prima di alzarmi, mi accorsi che qualcosa non andava. Quella non era la mia camera. Quello non era il tipico profumo di albicocche che aleggiava in casa mia. La stanza aveva un arredamento moderno, bianco ed argenteo, il pavimento era ricoperto di moquette color panna, soffice anche alla vista.

Mi tirai su a sedere e gemetti di dolore. La testa mi girava e la luce proveniente dalla grande vetrata alle mie spalle mi dava fastidio agli occhi. Ma il dolore più acuto e insolito, era quello che sentivo sotto di me, fra le cosce. Un pensiero si fece largo nella nebbia della mia confusione, ma lo diradai prima che potesse assumere l’aspetto della realtà.

Strinsi il fine lenzuolo contro il petto nudo e chiusi gli occhi, sperando che quello fosse solamente un sogno, anzi no, un incubo, dal quale mi sarei presto risvegliata. Aprii un occhio, ma la camera moderna mi stava ancora fissando con i suoi freddi occhi bicolore. Un brivido corse lungo la mia spina dorsale, lungo le mie braccia, gelandomi il sangue nelle vene. Dov’ero? Che fine aveva fatto Bea? Lacrime amare bagnarono le mie ciglia, ma rimasero lì, intrappolate da quella fitta ragnatela nera.

Tirai con violenza il lenzuolo verso di me, strappandolo alla presa del materasso, usandolo per coprire la mia nudità. Girandomi, appoggiai i piedi a terra e mi alzai, notando sul coprimaterasso una chiazza di sangue, un bocciolo di rosa in un campo di neve significante la mia virtù perduta, il rosso del peccato appena commesso.

Instabile sulle mie stesse gambe, mi dovetti appoggiare al davanzale dietro la testiera del letto per non cadere. Fuori dalla finestra erano distintamente visibili le colline di Hollywood, il cielo estivo privo di nubi grigie. Nel tentativo di riacquistare la stabilità che avevo perso, andai a sbattere con il ginocchio contro il comodino: l’abat-jour oscillò senza però cadere, e ai suoi piedi scorsi un biglietto. Trattenni l’impulso di strappare quel foglio di carta e, tenendo stretto il lenzuolo con una mano, con l’altra afferrai il cartoncino. Non c’era intestazione, e il disgusto per me stessa pungolò il mio orgoglio oramai quasi del tutto consumato. All’interno, il biglietto recitava in una calligrafia ordinata:

Spero tu abbia dormito bene, mia cara.

Nella cassettiera troverai l’intimo e nella cabina armadio ci sono invece dei vestiti.

Quando sarai pronta, confido che ti unirai a me per colazione.

                                                                                                                 C.C.

Sgranai gli occhi e senza pensarci due volte stracciai quel pezzo di carta lasciando che i suoi rimasugli cadessero a terra come neve.

Lacrime di rabbia mi bruciavano gli occhi, mi sentivo trattata come una puttana. Singhiozzai ma non piansi, non avrei osato versare lacrime per un mostro che non conoscevo, per un infido essere che mi trattava come una prostituta, né tantomeno avrei indossato un indumento contenuto in uno di quei cassetti o nella cabina armadio, non mi facevo comprare.

Perciò passai davanti alla cassettiera avviluppata nel lenzuolo candido. Camminare mi faceva male e repressi un conato di vomito al pensiero di quello che avevo fatto quella notte, anzi, dall’immagine che avevo vivida nella mente, perché i miei ricordi erano inesistenti. Quando però notai con la coda dell’occhio la mia figura riflessa nello specchio ovale bordato d’argento sopra la cassettiera bianca, quella che avevo davanti non ero io. I capelli erano un disastro, ma quello era il problema minore: ciò che mi attirò, oltre alla mia espressione sconvolta, fu un segno violaceo che solcava la pelle pallida sopra il mio seno destro. Un altro, speculare, infiammava l’altro seno. Tremante, raccolsi il coraggio e lasciai scivolare a terra il lenzuolo, scoprendo altri lividi in svariati e inimmaginabili punti del mio corpo: alcuni sul collo, sulle spalle, sui seni, sul costato, sui fianchi, in mezzo alle cosce, e non mi girai per vedere in quali altri punti ero stata toccata con cotanta brutalità, la sola consapevolezza di avere quei marchi sulla pelle li fece bruciare di modo che la mia mente potesse facilmente localizzarli senza nemmeno guardarli. Oltre il danno la beffa: quel bastardo aveva anche deciso di umiliarmi facendomi dei succhiotti. Digrignai i denti, raccolsi in fretta il lenzuolo stringendomelo al corpo.

A little piece of HeavenDove le storie prendono vita. Scoprilo ora