5. Io ti odio

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Capitolo 5 - Io ti odio
 

« Hate is an automatic response to fear,
for fear humiliates.* »
Graham Greene, The Human Factor
 

La stanza rossa sembrava la stessa dell'omonimo dipinto di Matisse, la prospettiva più reale, priva dei disegni blu. Era semplicemente, completamente rossa. Mi trovavo supina sul pavimento, lo sguardo fisso sul soffitto piastrellato. Chi diavolo metteva le piastrelle sul soffitto?
Cercai di muovermi, ma una fitta alla testa bloccò le mie intenzioni. Paralizzata, mi guardai attorno, artigliando il pavimento, e solo allora mi accorsi che sotto le unghie la superficie non era quella delle piastrelle, ma quella di un muro liscio. Aprii la bocca per urlare ma dalle mie labbra non uscì nulla, la stanza iniziò a girare su se stessa vorticando come un uragano, incontrollata.
Lasciami.
Quella parola risuonò nell'aria mentre il mio corpo veniva sollevato, lentamente, e portato sempre più rapidamente verso il pavimento.
Lasciami.
Feci per coprirmi il volto con le braccia, ma queste erano aperte e paralizzate come quelle di un paracadutista durante la caduta.
Lasciami.
Singhiozzai ma alle mie orecchie non giunse alcun suono, la stanza girava sempre più velocemente mano a mano che mi avvicinavo al pavimento. Chiusi gli occhi stringendoli, pronta all'imminente impatto che mi avrebbe tolto la vita.
Lasciami.
 
Aprii gli occhi inspirando bruscamente tutta l'aria che i miei polmoni potevano trattenere ed espirai lentamente per riprendere il contatto con la realtà. Sbattei più volte le palpebre per abituarmi al buio della mia camera, il profumo che aleggiava nella stanza calmò i battiti del mio cuore impazzito. Mi stiracchiai sotto le coperte e tutti i muscoli urlarono di dolore. Mhm, dovevo aver preso davvero una brutta sbronza ieri sera se non ricordavo nemmeno come fossi finita nel mio letto. Mi girai sul fianco, fuori era ancora buio e la sveglia segnava le sette e quarantacinque. Mentre chiudevo gli occhi quell'informazione venne registrata dalla mia mente e gettai le coperte da una parte, tirandomi in piedi incurante della dolorosa protesta dei miei muscoli. Arrancai verso l'altro lato della camera completamente immersa nel buio, perché non c'era la luce? Oh, la mia testa, ad ogni movimento sentivo fitte lancinanti come se mille coltelli mi fossero stati conficcati nel cranio. Entrambe le finestre erano chiuse, così come gli scuri. Quando li aprii la luce del sole mi investì violentemente facendomi barcollare all'indietro. Chiusi gli occhi con forza, la testa mi sembrò scoppiare. Merda.
Gettai un'occhiata alla sveglia. Le sette e quarantotto. Afferrai il cellulare sul comodino, dovevo chiamare Bea, ma quando non vidi lo schermo illuminarsi capii che il telefono era clinicamente morto. << Merda! >> esclamai a denti stretti raccattando alcuni dei vestiti sparsi sul pavimento quasi inciampando sugli anfibi. Imprecai a mezza voce, non ero solita tirare giù santi dal Paradiso, ma quella mattina ero in un ritardo spaventoso, così come mi accorsi erano le mie occhiaie quando raggiunsi il bagno. Il mio volto era un disastro, avevo gli occhi gonfi e cerchiati di nero come se avessi fatto a pugni. Per quanto valeva, potevo anche averlo fatto.
Non potendo farmi una doccia mi limitai a lavarmi il viso cercando di rendermi minimamente decente. Afferrai la spazzola e la passai fra i capelli, tirando come una matta per sciogliere i nodi. Mi sfilai la maglietta sbiadita che avevo addosso e infilai una canotta stropicciata. Presi lo spazzolino e ci spremetti sopra una quantità industriale di dentifricio che in buona parte precipitò nel lavandino. Iniziai a lavarmi i denti con una mano mentre con l'altra mi sfilavo gli slip e me ne infilavo un paio di puliti, quello sarà stato anche un dopo sbornia ma l'amore per la mia igiene personale non scompariva certo da un momento all'altro. Tenendo fermo lo spazzolino fra i denti mi infilai, saltellando da un piede all'altro, dei jeans puliti. Mi risciacquai la bocca e legai i capelli in una coda di cavallo disastrosamente disordinata. Tornai in camera dove l'orologio segnava le sette e cinquantanove. Non sarei mai arrivata a scuola in tempo, a meno che non fossi stata Flash, ma io di certo non ero Flash! Presi gli anfibi della sera prima e li infilai, allacciandoli alla bell'e meglio. Mi guardai attorno chiedendomi dove fosse la tracolla, quello non era certo il momento giusto per perdere altre cose oltre alla memoria! La trovai sulla sedia della scrivania e me la misi in spalla correndo come una disperata giù per le scale, l'unica mia speranza di contattare Bea era il computer, meglio sarebbe stato se anche lei fosse stata a scuola, ma se io mi ero ridotta così, non volevo immaginare cosa fosse successo a lei.
Lo stomaco ruggì quando superai la cucina diretta alla porta, il profumo di pancakes e cioccolato mi fece venire l'acquolina in bocca, ma probabilmente era la fame che mi faceva percepire questi odorini. Una mela, però, sul tragitto verso scuola potevo mangiarla. A grandi passi raggiunsi la cucina e mi paralizzai sul posto.
<< D'accordo, Jones, farò un abbozzo del nuovo studio legale di Parker in mattinata, sarà pronto per mezzogiorno. >>
Lui era lì, in piedi appoggiato all'isola della cucina, telefono all'orecchio e una spatola nella sinistra. Sbattei più volte le palpebre sperando che sparisse, ma lui rimase lì. Ad un tratto, tutta la rabbia che provavo nei suoi confronti si riversò fuori dalle mie labbra come un treno in corsa.
<< E tu che cazzo ci fai in casa mia?! >> esplosi avvicinandomi pericolosamente a lui, incurante del fatto che avrebbe potuto farmi del male. Lo volevo fuori da casa mia in un nanosecondo.
Si volse a guardarmi, gli occhi gelidi e le labbra strette. << Ti chiamo dopo. >> Chiuse la chiamata e si mise il telefono nella tasca anteriore dei pantaloni grigio scuro. Aggrottai le sopracciglia, mi sembrava di averli già visti. Scossi il capo, dovevo rimanere focalizzata sul mio obbiettivo e sbatterlo fuori.
<< Buongiorno anche a te... Dahlia. Dormito bene? >> La sua voce era cortese, distaccata, ma non potei fare a meno di notare la nota sarcastica nel suo saluto. Ciò mi fece infuriare ancora di più.
<< Che cosa diavolo fai in casa mia? Come hai fatto ad entrare? >> Davvero mi stavo preoccupando di questo? Non mi preoccupavo del fatto che magari poteva avermi violentata un'altra volta? Impallidii al pensiero, ma tentai di mantenere lo sguardo irato fisso nel suo.
Con la spatola che teneva in mano indicò il piatto di pancakes con gocce di cioccolato sull'isola della cucina. << Ti ho preparato la colazione. E so dove tieni le chiavi di scorta. >> Si strinse nelle spalle mentre appoggiava la spatola e metteva la padella nel lavabo assieme alla terrina che aveva usato per preparare il composto. Strabuzzai le palpebre. Lui aveva fatto cosa?
<< Fuori da casa mia. Fuori! >> tuonai indicando con la mano la porta di casa, invisibile dalla cucina, ma il significato era piuttosto chiaro. Al mio urlo sembrò che la casa tremasse, ma forse era solo una mia impressione, la testa pulsava dolorosamente, pronta a scoppiare.
Lo vidi scuotere la testa. << Che peccato, non ricevo nemmeno un grazie per averti portata a casa ieri sera? >> Sbiancai, allora avevamo... no, Dio ti prego no. Le lacrime mi annebbiarono la vista, in un attimo fu davanti a me, lo sguardo preoccupato e le mani attorno al mio viso. << No, Lia, non abbiamo fatto sesso. Eri ubriaca, ti ho messa a letto, punto, non è successo nulla. >> Tentò di circondarmi con le braccia per abbracciarmi ma scossi il capo con violenza, dimenandomi per allontanarlo. Lasciami.
<< Lasciami >> sussurrai seccamente, quando non sentii più la sua pelle a contatto con la mia riuscii finalmente a respirare meglio. Mi portai una mano al petto, sollevata ma al contempo turbata, di ieri sera avevo un vago ricordo. Sorrisi sarcastica, per niente divertita, al pensiero che quella era stata un'altra stramaledetta notte. Fui quasi sopraffatta da una risata isterica, ma ciò che feci fu controllare l'orologio della cucina. Erano le otto e dieci, nemmeno se avessi avuto una Ferrari da corsa avrei potuto arrivare a scuola in tempo. Feci un respiro profondo, poi lo guardai. << Ti voglio fuori di qui subito, e ti consiglio di non farti più vedere se non vuoi che ti denunci. Avrei tanto da dire >> sibilai risoluta, compiaciuta dal fatto che quelle parole l'avevano fatto impallidire.
Annuì riluttante, prendendo la giacca agganciata allo schienale dello sgabello, dal taschino fuoriusciva il lembo di una cravatta. << Perché sei qui? >> Le parole fuoriuscirono dalla mia bocca automaticamente, incontrollate. Il suo volto fu illuminato da un sorrisino sardonico solo per un istante, ma bastò per farmi infuriare ancora di più.
<< Ieri sera sei andata a mangiare fuori coi tuoi amici, ti sei ubriacata e io ti ho portata a casa >> disse scrollando le spalle come se niente fosse. Davvero pensava che bastasse una risposta come quella? Attenta, Lia, mi dissi, la curiosità uccise il gatto. Vedendo nei miei occhi che non bastava quella spiegazione, lui sospirò bruscamente. << Mi trovavo al Shinju con dei clienti, e il tuo brindisi mi ha... fatto infuriare. Ti ho seguita nel bagno delle signore e lì sei svenuta dopo esserti, diciamo, sfogata. Ho convinto un cameriere a farmi usare l'ascensore di servizio per farci scendere nel parcheggio sotterraneo senza doverti esibire come un fenomeno da baraccone fra le mie braccia. Ti sei ripresa appena in tempo per mandarmi al diavolo e pronunciare il nome della tua amica. Fortunatamente avevi il cellulare con te, così le ho scritto un messaggio dicendole di non preoccuparsi e che eri andata via perché non ti sentivi bene, ma probabilmente lo leggerà quando sarà passata anche a lei la sbronza. Oh, e sei quasi riuscita a mandare all'aria le trattative per la progettazione della nuova casa dell'ambasciatore giapponese. Era particolarmente contrariato. >>
<< Mi dispiace >> sussurrai senza riflettere. Sussultai per la sorpresa, davvero ero stata così stupida da scusarmi? Ripercorsi mentalmente il discorso che mi aveva fatto, soffermandomi un attimo sulla parte del bagno delle signore, passando poi a quando aveva accennato a Bea. Afferrai il cordless dal tavolo e composi il numero della mia amica. Spento. Fantastico, non mi aveva nemmeno buttato giù, ma era addirittura spento. Avrei potuto andare a tirarla giù dal letto ed entrare alla seconda ora.
Mi passai una mano dietro al collo, esasperata, e sussultai dal dolore. Percorsi con le dita il tratto di pelle abrasa, chiedendomi cosa mi fosse successo, se fosse stato lui. Come se mi avesse letto nel pensiero, dalle sue labbra uscì la risposta alla mia domanda inespressa: << Quando hai capito che ero stato io a regalarti la collana te la sei strappata via. >>
<< Non voglio essere la tua puttana. >> Pronunciai quelle parole ripescandole dai ricordi appena riaffiorati della sera prima, quando avevo augurato agli altri di non avere una sorte come la mia, quando lui mi aveva raggiunto nel bagno, quando io... Ansimai portandomi una mano alle labbra. No, non potevo averlo fatto davvero, non potevo averlo baciato.
Annuì alle mie parole, una mano stringeva il marmo bianco dell'isola. << Ad un certo punto hai cominciato ad urlare e sei caduta a terra, poi sei svenuta. So che tieni una copia delle chiavi sotto un'asse smossa della veranda, perciò sapevo come aprire la porta. Ti ho portata in camera tua che dormivi pesantemente, ti ho svestita e messo una t-shirt, credo anche di aver fatto un bel po' di caos. E poi ti ho struccata, il tuo viso sembrava quello di una geisha cui era stata gettata addosso dell'acqua. >>
Inspirai bruscamente, ricordavo le mie urla disperate, un'eco ben distinta nella mia testa. Lasciami. << Perché? Perché ti preoccupi di me? Io non sono nessuno, tu vesti con capi da diecimila dollari al centimetro quadro se bastano, puoi avere di tutto, perché non portarti a letto qualcuna del tuo livello...? >>
<< Oh, fidati, l'ho fatto. >>
<< Perché io? >>
Si strinse nelle spalle. << Ho pensato che fossi come tutte le altre >> ammise pacato dopo un lungo silenzio, guardandomi da sotto le ciglia scure.
In pochi passi coprii la distanza che ci separava e sollevai la mano, schiaffeggiandolo con tanta forza che mi sentii bruciare il palmo. << Tu sei il più vile, meschino e ripugnante bastardo che io abbia mai visto sulla faccia della terra. Vattene, non farti mai più vedere, e ringrazia il cielo che non ti abbia già fatto buttare fuori dai poliziotti. >>
Riportò lo sguardo su di me, con la mano si massaggiava la guancia infuocata su cui si vedeva l'impronta della mia mano. << Me lo merito, >> sussurrò guardandomi dall'alto in basso, << ma non per questo hai il diritto di cacciarmi. >>
Iniziai a ridere con fare isterico. << Ma davvero? Ringrazia che non abbia un piede di porco o una mazza da baseball, altrimenti te ne darei tante da scortarti fino alla stazione di polizia a suon di bastonate. >>
<< La mia politica è chiara, Lia. Io vi offro la vita che vorreste, sono un benefattore, in un certo senso. Vi copro di soldi, di abiti costosi e piacere dando inizio ad una nuova vita piena di lusso e fama, ma tu questo sembri non capirlo, Lia. >>
Ma si sentiva quando parlava? Era una cosa normale? Ogni momento che passava mi sembrava sempre più di avere a che fare con uno psicopatico. << Vattene, ti prego, esci dalla mia vita. Non mi serve nulla di tutto ciò che hai, né soldi, né abiti costosi, né tantomeno il piacere. È questo che vuoi? Che ti preghi di andartene, che mi inginocchi ai tuoi piedi? Ti accontento subito, >> singhiozzai cadendo a terra sulle ginocchia. << Ti prego, ora vattene, ti supplico, non voglio più niente a che fare con te. Non sono come le altre, non ti voglio. Va a fare il benefattore da qualche altra parte, ma non qui, ti prego. >> Le lacrime scorrevano silenziose lungo le mie guance, il suo sguardo era invece confuso. Davvero pensava che tutte le ragazze volessero una vita sfarzosa? Forse, nel profondo, lo desideravo anche io, ma non così, se dovevo arrivare in alto lo avrei fatto con le mie forze, e di certo non perché ero andata a letto con un plurimiliardario. No, io non ero così, non volevo niente di tutto ciò che mi proponeva.
<< Lia, perché? >>
<< Perché al mondo esistono persone che si accontentano di ciò che hanno già >> risposi quasi con affetto sedendomi sui talloni. Possibile che non capisse? << Oltretutto, >> continuai con voce ferma, << qualunque cosa tu mi regalassi la distruggerei, non importa quanto costi, io non la vorrei, non potrei mai avere accanto qualunque cosa che mi ricordi di te. >>
Aggrottò la fronte. << Perché? >>
<< Io ti odio, non ti basta come motivazione? >>
Lui impallidì, il tono secco della mia voce gli fece irrigidire la mascella. Iniziai a tremare, cercando di calmarmi, una parte della mia mente capì che la faccenda del benefattore era solo una facciata, ma non avrei osato indagare oltre, quella sarebbe stata davvero la mia fine. Lo sentii sospirare. << Come posso darti una mano? >>
Sconsolata, scossi il capo. << Non puoi, io ero felice senza te qui, e ora la mia vita è diventata un incubo. L'unica cosa che puoi fare per restituirmi la pace è uscire da questa casa e non farti vedere mai più. >>
La mia voce aveva il tono di una supplica, ma era risoluta, l'odio che provavo nei suoi confronti trapelava appena, eppure era palpabile. Strinse i pugni, cercando forse di non colpire mobili o muri, o me. Si portò le mani fra i capelli, sul suo volto passò un turbinio di emozioni, troppo veloce perché le potessi identificare una ad una. Non capivo come potesse comportarsi così, proprio non potevo, ma pregai perché accogliesse la mia supplica e se ne andasse. Lo odiavo e non volevo più avere nulla a che fare con lui, era così difficile da capire? Evidentemente, sì.
<< Lia, non è così che doveva andare a finire. >> Il suo tono di voce era incrinato, smorzato da una sensazione di impotenza che gli si era concentrata negli occhi. Non provavo pena per lui, sarebbe stato da stupidi, e fondamentalmente, io non ero come le altre che per pietà si rendevano schiave di chi le voleva solo per il sesso. Altro che benefattore, lui era un bastardo, e io lo sapevo fin troppo bene. Drogata, privata della propria virtù, perseguitata e addirittura studiata in ogni sua mossa. La sua non era beneficenza, era un disturbo psicologico che si ripercuoteva su di me perché non ero come le altre sue vittime.
<< Vattene, >> ripetei alzandomi in piedi, mi sentivo tremare perciò mi abbracciai all'altezza della vita creando una sottospecie di barriera fra me e lui. Tentai di distogliere gli occhi dai suoi, il suo sguardo mi causava fitte di dolore. Lo stavo trattando com'era giusto che fosse, e allora perché mi sentivo così male? Lui aveva abusato di me, mi aveva praticamente violentata, per non parlare del fatto che mi aveva perseguitata. Perché non mi sembrava giusto? Dio, mi sarei presa a pugni in quell'istante, anzi, probabilmente lo avrei fatto una volta che lui fosse uscito definitivamente dalla mia vita.
Silenziosamente, si diresse verso la porta di casa, ad ogni passo lontano da me che faceva la sensazione di terrore diminuiva. Lo seguii con lo sguardo per quanto potei, poi fui distratta dallo squillare del telefono. Afferrai il cordless e premetti il tasto verde con la speranza che a chiamarmi fosse la mia amica, altrimenti sarei andata a buttarla davvero giù dal letto. << Pronto? >>
<< Lia! Finalmente! >> A rispondere era stato invece Ashton, la voce cercava di essere calma ma percepii una nota di panico nel suo saluto. Il cuore iniziò ad aumentare lentamente i battiti.
<< Ash, qualcosa non va? >> domandai con lentezza. Ash non chiamava mai, o quasi mai, e solitamente aveva a che fare con le mie analisi del sangue, solo che io non le facevo da sei mesi.
<< Bea... Bea ha avuto un incidente, Lia. Un grave incidente. >>
La bomba esplose facendomi crollare a terra, le ginocchia si scontrarono dolorosamente contro il pavimento, ma io non sentii alcunché, le parole "Bea" e "incidente" mi rimbombavano nella mente in un'eco senza fine. << C-come? Quando? >> Mi portai una mano al volto, sotto le dita sentii la traccia umida lasciata dalle lacrime.
Un brusco respiro all'altro capo del telefono, la voce di Ash si era fatta debole, colpevole. << Ieri sera, dopo che te ne sei andata, abbiamo bevuto ancora, e quando siamo andati via Bea era, beh, brilla, ma sai com'è, una volta che è al volante la sua mente è lucida. Non so bene cosa sia successo, ma sembra che un camion l'abbia investita in pieno mentre stava guidando verso Santa Monica. L'hanno portata qui stamattina alle sei, ma io sono arrivato solo mezz'ora fa, ed è ancora sotto i ferri. >>
Iniziai a tremare, catapultata nuovamente nel mio gelido inferno. Uno dietro l'altro i singhiozzi mi impedirono di parlare, le mie labbra si muovevano formando il nome di Bea senza emettere alcun suono. << Lia? Vuoi che venga a prenderti io? >>
<< Lia? >>
Non ebbi la forza di alzare lo sguardo, ma riconobbi la sua voce, pacata e piena di apprensione. Sul serio?
<< Lia, chi c'è con te? Lia? >>
<< A-arrivo, Ash >> sussurrai con un filo di voce e chiusi la chiamata, le lacrime scorrevano sulle mie guance ed io ero incapace di fermarle. Bea, la mia piccola Bea. Singhiozzai portandomi una mano al volto.
<< Lia, guardami, che cosa è successo? >> Con una mano cercò di farmi alzare il viso, ma mi divincolai dalla sua presa, il telefono stretto nella mia destra era l'unica cosa di reale alla quale ero aggrappata.
<< Lasciami, io ti odio >> mormorai con la voce smorzata dai singulti. Facendo leva su me stessa mi alzai in piedi, barcollante. Senza attendere oltre mi lanciai alla disperata ricerca delle chiavi della macchina. Le lacrime continuavano ad annebbiarmi la vista, mano a mano che le toglievo con le mani queste si ripresentavano con maggiore intensità.
Provai dapprima a cercare le chiavi nell'entrata, magari le avevo lasciate lì da qualche parte. Le cercai sopra i due mobili dell'ingresso, dentro i cassetti addirittura, nel piatto portaoggetti in vetro blu dove di solito ammassavo tutte le cose che avevo in tasca e che potevano sempre ritornare utili. Niente, le chiavi della macchina non si trovavano nemmeno lì. Scaraventai a terra con un unico movimento del braccio il piatto che si frantumò sul pavimento, le cose che vi erano contenute sparse come corpi morti su un letto di cenere.
Sopraffatta dal senso di colpa mi inginocchiai a raccogliere uno ad uno gli oggetti caduti incurante dei microscopici pezzi di vetro blu che si conficcavano nella mia pelle.
<< Lia, >> mi chiamò con voce morbida, preoccupata, mentre con gentilezza mi afferrava le mani e le ripuliva dai frammenti che mi avevano inciso la pelle ora lievemente chiazzata di sangue. << Lia, che è successo? >> Quella domanda esigeva una risposta, ma le mie labbra erano chiuse, talmente premute l'una contro l'altra da formare una linea sottile. Mi scosse appena, chiamandomi ancora una volta per nome.
Singhiozzai, avevo superato il punto di rottura da un bel pezzo, oramai non sapevo più nemmeno come mi chiamavo. << Bea... ospedale... ti odio... >> Parole sconnesse uscirono dalla mia bocca con un filo di voce, tremavo come se fossi ripetutamente trapassata da una scossa elettrica.
<< Lia, guardami, guardami! >> ordinò prendendomi il volto fra le mani, le dita tiepide di lui erano l'unica cosa che ardeva nel mio gelido inferno, ogni suo tocco era una potente vampata di fuoco vivo. Provai a liberarmi, ma mi fu impossibile.
<< Io ti odio... >> ripetei con voce spezzata mentre con le mani afferravo la sua camicia e la stringevo macchiandola di minuscole gocce rosse. Iniziai a respirare affannosamente, annaspando alla ricerca d'aria, le lacrime oramai fuoriuscivano incontrollate e finivano sugli oggetti ammassati sul pavimento. << Ti odio... >> ansimai ancora mentre le sue dita cercavano di asciugarmi le guance.
<< Lia, ti prego... >>
<< Io ti odio... >>
<< Ti prego! >>
<< Io ti odio! >> gemetti fuori di me, i polmoni facevano male per la poca aria che inalavo, ma mi sembrava di non avere più aria da poter respirare.
Ad un tratto lo sentii stringermi con forza le spalle, la sua bocca si impadronì della mia e mi dischiuse con forza le labbra, il suo respiro si riversò fresco dentro di me. Ogni mio muscolo si paralizzò per la sorpresa, gli occhi sbarrati, spaventati. Abbassai le palpebre ricominciando a respirare dentro la sua bocca, ma lui si staccò da me prima che io potessi ricambiare il bacio.
<< Ti porto io in ospedale. Poi non sentirai più parlare di me, te lo giuro. >>
<< Io ti odio... >> risposi meccanicamente, lentamente il pensiero delle chiavi della macchina si allontanava da me mentre lasciavo che si alzasse e mi trascinasse in piedi con sé, le mani ancora strette alle mie spalle scivolarono lungo le mie braccia nude facendomi rabbrividire.
<< Lo so, >> sussurrò afferrandomi gentilmente una mano senza stringere troppo forte e uscendo di casa. Non risposi, lo sguardo fisso sulle nostre dita intrecciate, le mie diventate bianche per la stretta eccessiva.
Vattene.
Lasciami.
Io ti odio.
<< Grazie. >>
 

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*L'odio è una risposta automatica alla paura, alla paura di essere umiliati.

Fra le tante citazioni sul rapporto fra odio e amore, ho deciso di mettere questa perché rispecchia le sensazioni di Lia, ovvero ha paura di sentirsi umiliata se si concedesse a lui, non vuole essere la sua puttana, come chiarisce anche sopra, questo va contro i suoi principi.
Come potete ben vedere, lui la perseguita - e ho dato una parte della spiegazione del perché lui fa quello che fa: vuole essere un benefattore (niente legami con Teen Wolf, eh xD), l'unico suo scopo sembra essere quello di voler ricoprire di gioielli e abiti e piacere donne che senza di lui vivrebbero una vita miserabile. Ma sarà solo questo il suo motivo? Mah, non si sa, forse si saprà più avanti!
Comunque, non vedo l'ora di avere molto più materiale per le gif con Jamie, ce ne sono pochissime O_O un uomo così figo, perché?! Ah, va ben, non importa, l'importante è che Bea si salvi, no? Povera ragazza - insomma, neanche tanto, ha deciso lei di bere come una spugna - semmai la povera ragazza è Lia!
A risentirci, bamboli,
lilium
(aka, la vostra benefattrice ;D)

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