Capitolo 4 - I fell apart
«I fell apart, but got back up again, and then
I fell apart, but got back up again, yeah.* »30 Seconds to Mars, Alibi
Canticchiavo spensierata Alibi dei 30 Seconds to Mars, la voce disperata di Jared Leto che cantava "I fell apart" mi faceva venire i brividi e sentivo una morsa gelida stringermi il petto. Sospirai appena, le mie dita si muovevano delicate sugli ultimi lividi giallastri che mi decoravano macabramente i seni e le natiche. Nell'ultima settimana avevo visto gli ematomi neri sbiadire sempre di più fino a divenire completamente invisibili sulla pelle. Se però guardavo attentamente, io riuscivo ancora a vedere i loro spettri, un'apparizione fugace e dolorosa.
Chiusi il tubetto della pomata e mi lavai le mani, lasciando che si asciugasse, invece, sui seni dove l'avevo appena spalmata. Avevo iniziato a reagire, ora andavo a scuola e non indossavo più abiti invernali, lui era finalmente uscito per sempre dalla mia vita.
Stando attenta a non toccare il punto in cui mi ero scottata questa mattina sulla mano destra, indossai gli slip dopo aver dato una veloce occhiata all'orologio della mia camera, ben visibile dal bagno dall'altra parte del corridoio. Dato che la pomata non si era ancora asciugata decisi di passare al trucco, legandomi per prima cosa i capelli in una coda di cavallo alta sulla testa. Mi truccai con calma, matita, eye-liner, ombretto rosa acceso leggero sulle palpebre e mascara, una cosa semplice per una semplice serata fra amici. Misi un po' di lucidalabbra e del fard sulle guance per finire il tutto. Non ero un brutto spettacolo, Bea sarebbe stata fiera di me, almeno un poco. Indossai il reggiseno e andai a prepararmi, jeans blu e canotta nera, anfibi al polpaccio dello stesso colore, orecchini con cristalli e una perla ovale al centro- una perla da bigiotteria, si intende - bracciale di perle rosa con dei cerchi e catenine pendenti. Erano tutte cose semplici, niente di eccessivamente costoso, l'unico mezzo di sostentamento che avevo era quello del lavoro di antropologa di mamma dalla Turchia e i bonifici mensili della mia nonna materna, Ursula, dalla Francia. Per l'ennesima volta, mi domandai come mia madre, una hippy convinta fino al midollo, avesse fatto a laurearsi in antropologia e avere tanto successo. Scrollai le spalle e sentii una debole fitta di dolore. Già, i lividi erano passati, ma non i dolori ai muscoli che le dita di lui mi avevano causato, il pensiero che presto anche questi sarebbero spariti lasciandomi finalmente in pace mi dava sollievo.
Avevo messo Alibi in loop, e quella non era certo la prima volta che lo facevo, la canzone rispecchiava troppo bene la mia condizione attuale, anche io dovevo rialzarmi. E, con calma, lo stavo facendo, perché se l'avessi fatto in fretta e furia probabilmente mi sarei schianta al suolo senza alcuna possibilità di rialzarmi. Strinsi le labbra, ritornando in bagno, i miei viaggi di preparazione, così li chiamava Bea, che invece amava vestirsi e truccarsi in bagno per non far svanire l'effetto sorpresa a chi si trovava in casa con lei - talvolta chiudeva fuori dalla porta persino me. Spazzolai i capelli con cura ottenendo morbide e ondulate ciocche nere, almeno quella sera sembravo avere un aspetto decente.
Era la prima volta che uscivo in compagnia dopo quella stramaledetta notte, quelli però erano i miei amici di sempre, la compagnia del quartiere, età diverse per caratteri diversi. Quella sera volevamo inaugurare l'inizio dell'ultimo anno con una sottospecie di pazzia: una cena al ristorante giapponese LA's Shinju. Sette su quindici, comprese me e Bea, avevano iniziato l'ultimo anno la settimana scorsa, gli altri avevano finito da un pezzo, in due erano già laureati.
Dal bauletto portagioielli presi una fascetta per capelli rigida, di quelle che stringevano la fronte, dorata con incisioni floreali e, sulla parte posteriore, decorata con delle strette catenine pendenti. La canzone iniziò di nuovo, ma venne sopraffatta dal rumore assordante del clacson della BMW Zagato Coupé rossa fiammante di Bea. Gridando un "arrivo" che ero certa non poteva sentire, mi fiondai dapprima in camera a spegnere il computer e raccattare le mie cose per infilarle nella borsa e poi giù per le scale, chiavi di casa in una mano e cellulare nell'altra.
Aprii goffamente la porta e la richiusi a doppia mandata con tanta fretta che per poco non dimenticai la chiave nella toppa. Sospirai per la mia stupidità e salii nella macchina di Bea al posto del passeggero. Nell'abitacolo suonavano i Paramore, la band preferita della mia amica, che partì a tutta birra verso il ristorante mentre ancora cercavo di allacciarmi la cintura. Notoriamente noi eravamo sempre le ultime ad arrivare, tranne in casi straordinari che si verificavano davvero, davvero di rado. Nessuno ce lo faceva pesare, anche perché così potevano ordinare qualche alcolico senza preoccuparsi di farsi chiedere i documenti. Fra i sette minorenni della compagnia, io ero certamente quella che meno passava inosservata, soprattutto per via della mia statura, mentre Bea sembrava già più grande di me senza il bisogno di mettersi i tacchi.
<< Sicura di non volerci mettere sopra qualcosa? >>
Bea gettò uno sguardo veloce alla mia mano per poi riportarlo sulla strada. Scossi il capo, avevo curato scottature e ferite di altro genere con l'aloe tante di quelle volte che oramai quella sembrava per me l'unica cura. Bea era sempre stata diffidente in merito a questo metodo, credeva che la pianta esotica non servisse a nulla, e non si era ricreduta nemmeno quando una volta l'aloe le aveva cicatrizzato in pochi giorni una brutta ferita al ginocchio dovuta ad una caduta in bicicletta. Semplicemente, preferiva le cure di un medico - che magari fosse affascinante e single. Ridacchiai fra me e me passandomi un dito sulla mezzaluna senza premere, la pelle formicolava mentre si ricreava sotto la bruna pellicola che si era formata. Era un aneddoto davvero stupido, almeno la prossima volta avrei le fatto le cose come andavano fatte realmente.
La vidi lanciarmi un'occhiata rapida, curiosa e confusa. Con una mano indicò il mio petto. << E quella da dove viene fuori? >>
Istintivamente mi portai una mano al ciondolo che pendeva dalla catenina argentata. L'avevo trovata nel cassetto del mobile dell'entrata quella mattina. In effetti non l'avevo mai notata, si trovava all'interno di una scatolina quadrata blu scuro che in argento riportava il logo di Swarovski. All'interno c'era questa collana, una comune lacrima, così veniva definita, blu scuro sfaccettata d'oro e verde, un ciondolo dalla fattura semplice che immaginai appartenesse a mamma. Non che lei amasse i gioielli, ma magari qualcuno gliene aveva fatto dono e lei l'aveva tenuta senza mai però indossarla. Tanto meglio, a me piaceva, e avere qualcosa da torturare con le dita era rilassante.
Le parole di Oh Star si diffondevano nell'abitacolo rendendo l'atmosfera piuttosto triste, ma me ne rimasi zitta, l'ultima cosa che volevo era litigare con Bea per la musica, soprattutto quando era lei a guidare. Mi accoccolai sul sedile, per la prima volta da giorni non avevo paura di uscire di casa, avevo anche smesso di pensare che le persone che incrociavo per strada potessero in qualche modo vedere i miei lividi. Presto gli ultimi sarebbero spariti e io avrei riavuto indietro la mia vita, completamente.
<< Non sembra roba da tua madre. >>
<< Per questo l'ho presa io. Oltretutto, in Turchia non le serve affatto. >>
<< Quando l'hai sentita l'ultima volta? >> Anche se non poteva guardarmi, intuii dal suo tono che voleva sapere se avessi raccontato a mia madre cosa fosse successo. Si fermò ad un semaforo e mi gettò un'occhiata fugace. Come immaginavo.
<< Domenica. L'ho sentita domenica e no, non le ho detto nulla. Niente di niente. >> Oltre a me, Bea era l'unica a sapere di mercoledì scorso. Le budella si aggrovigliarono nel mio stomaco, sperai almeno di riuscire a mangiare qualcosa quella sera, non volevo presentarmi allo Shinju davanti ai miei amici e non mangiare nulla. Loro erano la mia seconda famiglia, o forse la prima, non potevo proprio dirlo, mia madre era stata troppo assente e mia nonna l'avevo vista due volte quando ero piccola, l'unica cosa che faceva per starmi vicino era darmi dei soldi di cui francamente non m'importava nulla.
<< Non vedo l'ora di mettere sotto i denti degli harumaki. >> Gli occhi di Bea brillavano al solo pensiero della cena. Per mia fortuna, anche il mio stomaco sembrò risvegliarsi, almeno non avrei digiunato.
Guardai Bea di sottecchi. << Tu non eri quella della zuppa di pesce? >> In effetti, Bea era molto volubile, ma stranamente, in fatto di cibo giapponese, la sua scelta ricadeva sempre sulla zuppa di pesce. Difatti, fece un vago gesto con la mano.
<< Capita anche ai migliori di avere delle debolezze. >>
Alzai gli occhi al cielo, ridacchiando. Mi piaceva passare il tempo con Bea a parlare del più e del meno come delle persone normali, forse talvolta un po' superficiali, ma chi non lo era di questi tempi? Sospirai e ricominciai a giocherellare distrattamente con la collana mentre Bea parcheggiava con maestria fra una Dodge e una Cadillac. Impeccabile come al solito.
L'edificio, un alto grattacielo di circa ottantasei piani o giù di lì, ospitava venti ristoranti di varie specialità mondiali, tre palestre e altri uffici ai piani alti. Il nostro obbiettivo si trovava al trentaduesimo piano, e tutto sommato aveva una bella vista sulla città - doveva averla, per essere così rinomato, l'estetica non era una cosa che veniva sottovalutata da chi voleva fare bella figura con una donna o con dei colleghi di lavoro piuttosto reticenti a fare affari, e nemmeno dai critici i quali, come sosteneva mia madre, erano quelli che in merito alla loro materia non sapevano nulla.
Scesi dall'auto e affiancai Bea mentre entravamo attraverso le porte girevoli nell'atrio del grattacielo, l'Evanescence. Il pavimento era di marmo nero con venature bianche e grigie, alle pareti erano appesi dei quadri di pura cultura zen che davano un senso di relax inaspettato e piacevole. Il bancone della reception era posizionato sulla parete di fondo davanti all'entrata, anch'esso realizzato in marmo nero. Dietro al bancone c'era un addetto in piedi che sorrideva con finta cortesia e, sedute, altre due figure di cui vedevo solo la parte superiore del capo. Per un attimo mi sentii fuori luogo, una donna mi passò accanto e sentii una fitta al cuore. Indossava un lungo abito verde menta e sulle spalle portava uno scialle di una tonalità più chiara, eco del fermacapelli che decorava lo chignon. Deglutii e a fatica percorsi la distanza che mi separava da quello aperto fra i tre ascensori lì presenti.
Mentre entravamo nell'ascensore sotto gli sguardi indignati degli uomini d'affari gettai un'occhiata allarmata a Bea, ma lei mi rispose con il suo solito sorriso disarmante. Alzai gli occhi al cielo, lei era la tipica bellezza bionda californiana fasciata da un top rosso e dei jeans aderenti blu scuro a vita bassa che le lasciavano scoperti cinque buoni centimetri di pelle. Per non parlare dei tacchi, neri e lucenti come il manto di una pantera. Era legale guidare con quei tacchi? O anche solo andarci in giro? Sospirai appena, impercettibilmente, come se respirare in mezzo a quella gente mi fosse interdetto.
Le porte dell'ascensore si chiusero davanti ai miei occhi, io e Bea ci trovavamo al centro della folla di persone che parlottavano fra loro sottovoce, alcuni di azioni in borsa, altri di attività di beneficenza. Sentii le budella contorcersi nuovamente nel mio stomaco, alla fine il mio destino era quello di venire qui e non mangiare nulla, che bei momenti!
Iniziai a tamburellare con le dita sulla mia coscia, una mano si serrò attorno al mio polso. Sussultai e mi irrigidii, ma era solo Bea che mi fissava con uno sguardo ammonitore. Sorrisi mortificata, lei sapeva che quando mi sentivo a disagio iniziavo a far finta che le mie gambe fossero una tastiera e immaginavo di suonare qualcosa di tranquillo. D'accordo, dovevo calmarmi, non era possibile che nel ristorante vi fossero solo persone di alto livello il mercoledì sera, no?
Mentre l'ascensore continuava la sua corsa fermandosi al ventinovesimo piano - ristorante coreano - lisciai le pieghe sulla canottiera, certo anche io avrei potuto scegliere qualcosa di più decente, ma era comunque un passo avanti non vestire più come se fuori infuriasse una bufera di neve. Spostai il peso da un piede all'altro, le porte automatiche ad un tratto si aprirono sulla nostra meta. Sospinta da Bea, lasciai il rifugio dell'ascensore e cercai con lo sguardo il nostro tavolo. Il luogo era affollatissimo, la gente sedeva ai tavoli chiacchierando, e mi rilassai appena vedendo molte persone vestire abiti casual.
Vagai con lo sguardo fino a quando non riconobbi le meches rosa di Eponine - sua madre era una patita de I Miserabili e io non potevo certo darle torto - fasciata da un abito al ginocchio che richiamava il rosa dei suoi capelli. Nine aveva tre anni in più di me e Bea, frequentava i corsi di chimica e aveva un fidanzato fantastico, l'ultima aggiunta della nostra compagnia, Ben.
A passo veloce coprii la distanza che ci separava ignorando il cameriere giapponese che si stava avvicinando per chiederci quale fosse il nostro nome per portarci al nostro tavolo. Ecco, questo era un buon metodo per non passare inosservata e farci odiare prima ancora di ordinare. Probabilmente ci avrebbero sputato nel piatto per questo affronto. Beh, né io né Bea eravamo bravi cagnolini che facevano ciò che gli veniva impartito, né lo saremmo mai state.
Avvicinandomi vidi che due posti - naturalmente vicini - erano stati lasciati liberi per me e la mia amica. Sentii gli urletti smorzati delle ragazze e i calorosi saluti dei ragazzi non appena ci videro, e io sorrisi a trentadue denti. Oh se mi erano mancati! Mi chinai a schioccare un bacio sulla guancia di Adam, i capelli lunghi fin sotto le orecchie erano ancora al loro posto nonostante minacciasse continuamente di tagliarseli. Ovviamente scherzava, ma sarebbe stato un peccato se quei ricci corvini fossero spariti. Lui ricambiò con un elegante baciamano, ma i suoi occhi non si staccarono dalla fidanzata seduta dall'altra parte del tavolo. Sharon scosse il capo divertita, fra tutti noi non c'era mai stata gelosia, una rottura sì, ma ognuno era leale verso gli altri, questo sì, se si formava una coppia nessuno si intrometteva nella relazione. Eravamo come una grande famiglia, con le nostre litigate di tanto in tanto, ma fra noi scorreva un amore fraterno incondizionato.
<< Ditemi che avete ordinato cibo e alcool! >>
La voce di Bea era bassa e secca e ciò rese la frase ancora più divertente. Tutto il tavolo scoppiò a ridere. Ah, se i giapponesi avessero controllato i nostri documenti reali la metà del tavolo sarebbe stata buttata fuori seduta stante. Mi sedetti al mio posto fra Bea e Heath, anche lui all'ultimo anno. Prima che arrivassimo erano stati serviti piatti con sushi. Senza fare troppi complimenti afferrai le bacchette, le separai e le misi fra le dita come avevo fatto già un milione di volte. Il parlottare vivace dei miei amici era contagioso, il mio umore era decisamente alle stelle, e il bello era che loro non sapevano di lenire le mie ferite con la loro sola presenza, ignari di quello che era successo. Bastava davvero così poco ad essere felici? << Qualcuno mi passi la salsa agrodolce! >> quasi urlai per sovrastare le loro voci mentre Dan, distrattamente, mi passava la ciotola con la salsa rossa. Perfetto, ora potevo dedicarmi completamente al mio stomaco. Afferrai con le bacchette un sake nigiri e lo imbevetti nella salsa agrodolce prima di metterlo in bocca e masticarlo. Ora capivo come mai quello fosse uno dei ristoranti giapponesi più rinomati di Los Angeles, quel sushi era divino.
Mi persi ad ascoltare Ashton e i suoi aneddoti del corso di anatomia. Finora lui aveva partecipato come spettatore, insieme ad altri studenti, a due autopsie, e l'ultima non era andata proprio a buon fine: non appena il professore aveva inciso lo stomaco di un uomo si era levato dal corpo un fetore disgustoso tanto che in molti erano dovuti filare in bagno a vomitare.
<< Questo, >> disse Ashton con finta voce autoritaria per emulare quella del suo professore, << questo significa che gli organi interni del nostro paziente hanno iniziato il loro processo di putrefazione. Domande? >>
<< Dio, Ash, fai schifo! >>
Scoppiammo a ridere tutti, io compresa, mentre afferravo un california roll e lo masticavo trattenendo le risa per non diventare una spara-riso ambulante. Con la coda dell'occhio vidi Martha iniziare a riempire dei bicchierini con del sake, segno che presto sarebbero iniziati i brindisi. Ognuno di noi, nel brindisi avrebbe augurato a tutti di fare o non fare ciò che gli era successo dall'ultima volta che ci eravamo visti. Nessuno si preparava il discorso, era tutto spontaneo, un nostro rituale, divertente per il fatto che l'ultimo di noi che alzava il bicchiere era a dir poco ubriaco, e non solo l'ultimo, a volte capitava che fin dal primo all'ultimo fossimo già sbronzi da un bel po'. Sperai di non essere l'ultima, non volevo dire cose inappropriate, tenere nascosto ai miei amici ciò che era successo era stata una decisione presa con fermezza, sapevo che se l'avessero scoperto mi avrebbero dapprima fatto una ramanzina e poi mi avrebbero guardata con pietà. Provavo vergogna per ciò che era successo, e l'ultima cosa che volevo era essere trattata con compassione.
Martha si alzò per prima, essendo lei a capotavola. Portava un caschetto castano dalle punte bionde, il naso all'insù e i grandi occhi verdi le davano un'aria più giovane dei suoi venticinque anni. Si schiarì la voce per attirare la nostra attenzione e l'intero tavolo si zittì. << Allora, auguro a tutti voi di non prendere decisioni avventate in merito al lavoro, perché a volte potreste davvero prenderlo in quel posto fino all'osso! Detto questo, vi auguro ogni bene, cento di questi giorni, eccetera, eccetera. Cheers! >>
Ridacchiai sotto i baffi allungandomi per far tintinnare il mio bicchiere di sake contro quelli degli altri, Martha aveva lasciato circa sette lavori negli ultimi sei mesi, l'ultima sua avventura era stata in uno studio fotografico dove faceva letteralmente la schiava. Bevvi in un unico sorso il sake, l'alcool mi bruciò la gola e strinsi le palpebre con forza. Meno uno, ora ne toccano altri quattordici!
Un secondo brindisi era rivolto a noi tutti - almeno qualcuno di lucido c'era ancora, nessuno sembrava aver bevuto acqua mentre mangiava. Il sake mi bruciò ancora la gola, sentivo la testa iniziare a girare.
Terzo brindisi: al nuovo disco dei 30 Seconds to Mars. Anche io mi unii a quel brindisi con un verso di approvazione, quell'album era decisamente stupendo. Il caldo liquido nel bicchiere mi scaldava, o forse era il sake già in circolo a farlo? Non mi curai di avere una risposta.
Quarto brindisi, quarto shot: all'imminente partenza di Sharon per New York, dove avrebbe passato sei mesi per un corso di specializzazione - Adam sarebbe andato a trovarla ogni giorno libero che aveva, quei due erano inseparabili, innamorati cotti.
<< Al sake! >> Scoppiai a ridere quando Eponine fece quel brindisi, a dire il vero me lo sarei aspettata più da Bea, e dal suo finto broncio intuii che Nine le aveva rubato la frase. Questa ammiccò, tirando fuori la lingua. << Sarà per la prossima volta Bubblegum. >> Mi si illuminarono gli occhi, era da tantissimo tempo che nessuno chiamava Bea con quel suo soprannome. Le arruffai i capelli con fare affettuoso mentre con un gesto secco del polso mi appoggiavo il bicchierino alle labbra e lo inclinavo per berne il contenuto. Dio, era passata un'eternità dalla mia ultima sbronza con il sake. Non guardai la bottiglia per controllare quanti gradi avesse, non che questo mi avrebbe fermata, certo.
Sesto brindisi, all'ultimo anno di medicina di Ash. Strabuzzai gli occhi ingoiando il sake caldo, non ero più abituata a bere così tanto.
<< A questa serata e all'alcool in generale, sono troppo brilla per fare un discorso decente, quindi accontentatevi >> chiarì Bea con un risolino alzando il bicchiere. Mhm, da come procedeva la serata, probabilmente avremmo chiamato dei taxi per portarci fino a casa, oppure avremmo direttamente dormito qui.
Toccò a me alzarmi in piedi e ringraziai il cielo di aver scelto dei semplici anfibi, altrimenti avrei finito il mio brindisi in mezzo al sushi e alle zuppe che ci erano state servite poco fa. Mi schiarii la voce. << Brindo a tutti noi, e vi auguro di non essere presi di mira da un maniaco figlio di puttana che vi droghi solo per portarvi a letto e rubarvi la verginità. Cheers! >> Bevvi il sake tutto d'un fiato, sedendomi di nuovo fra le risate generali. Emisi un sospiro di sollievo, tutti avevano collegato la mia frase pensando mi riferissi ad un libro. Meglio così, non mi sarei mai sognata di dire quelle cose da sobria, ma almeno nessuno aveva dato per scontato che fosse vero, eravamo tutti decisamente troppo brilli per distinguere la realtà dalla fantasia, e questo me lo dimostrò Bea che invece di lanciarmi un'occhiata di apprensione, mi strinse a sé canticchiando un motivetto allegro.
I brindisi continuarono, uno alla volta gli shot di sake scivolavrono giù per la mia gola infiammandomi le viscere e aumentando il tasso alcolico nelle mie vene. Afferrai con le bacchette un uramaki e me lo portai alla bocca, i rumori delle risatine e delle chiacchiere in sottofondo erano rilassanti, in un certo senso, almeno fino a che qualcuno non si metteva ad urlare, e allora sì che sentivo la testa scoppiare.
<< Lia, assaggia questa, è ottima! >> Bea mi stava porgendo la sua zuppa di pesce, ma declinai l'offerta, riluttante. Suonava stupido, ma io non mangiavo pesce, se non sushi o tonno in scatola. Sì, mi vergognavo di questo, ma il pesce proprio non mi piaceva. Mamma diceva che era l'età, ma i miei amici adoravano da tempo il pesce. Gonfiai le guance e afferrai una scodella di ramen che ripulii in poche bacchettate, tirando su con la bocca come mi era stato insegnato. Era strano che in un elegante ristorante quello che comunemente era un gesto ordinario venisse ritenuto normale. Scrollai le spalle, era strano che con tutti quegli shot i miei pensieri seguissero ancora un filo logico, o almeno in parte era così.
Bevvi un sorso d'acqua frizzante che mi rinfrescò la gola in fiamme. << Dimmi che sai dov'è il bagno >> sussurrai a Bea, intenta a trangugiare con gusto la sua seconda scodella di zuppa di pesce. Lei annuì e con un gesto vago della mano indicò un paravento in perfetto stile giapponese, tela beige e ricami orientali. Ringraziai Bea con un sorriso e mi alzai, passando dietro a Heath, che si tirò indietro con la sedia per impedirmi di passare. Gli affondai le dita nelle spalle, scherzosa, e lo sentii contorcesi sotto di me. Con un sorriso affabile e poco sforzo, spostai in avanti lui e la sua sedia, uscendo dallo spazio angusto fra tavolo e muro. Una volta libera, mi diressi verso il bagno.
Non sentivo quasi più le gambe, appena mi spostavo di qualche centimetro vacillavo e dovevo impiegare tutte le mie forze per non cadere addosso a qualcuno. La testa mi girava appena, ma concentrandomi sul mio obbiettivo riuscii a raggiungere il paravento, dietro il quale c'era uno stretto corridoio di piastrelle rosse e bianche che portava ad un'anticamera sulla quale si aprivano quattro porte nere. Individuai, con una rapida occhiata, quale fosse il bagno delle signore e mi ci fiondai dentro. Anche lì le pareti erano cosparse di piastrelle rosso fuoco, da un lato c'era una fila di lavandini bianchi dai rubinetti dorati a forma di dragoni e dall'altro le porte dei bagni.
Davanti ad un lavandino c'era una signora in un abito rosa pallido che si incipriava il naso guardandosi allo specchio che correva lungo tutta la parete davanti a noi. Mi persi per un attimo ad osservarla con la coda dell'occhio mentre aprivo il rubinetto e facevo scorrere l'acqua fredda. Era una bella donna, sulla trentina, occhi di un intenso nocciola e labbra sottili truccate di rosso, naso dritto e carnagione abbronzata, capelli neri come l'ebano raccolti in un'acconciatura elaborata. Sì, era decisamente bella da mozzare il fiato.
Affondai i polsi sotto il getto d'acqua corrente, assolutamente una bella sensazione, piacevole, il sangue bollente all'interno delle mie vene parve raffreddarsi con il passare dei minuti. Nella stanza aleggiava una musica leggera tipicamente orientale che rispecchiava perfettamente lo scrosciare dell'acqua e altri suoni della natura. Mentre tenevo le mani sotto il getto d'acqua e mi massaggiavo i polsi facendo attenzione a non passare sulla scottatura a mezzaluna, la donna accanto a me mise via la cipria in una borsetta dorata e uscì dal bagno senza rivolgermi il benché minimo sguardo. Snob, pensai acidamente riportando lo sguardo sulle mie mani, lunghe dita affusolate da pianista, unghie tenute relativamente corte e prive di alcun smalto. Per lenire il mal di testa che avevo in quell'istante avrei dovuto farmi degli impacchi freddi e andare a dormire, solo che non potevo certo piantare le tende nel locale, nonostante mi sarebbe piaciuto molto. Presi del sapone liquido dal contenitore vicino al lavandino e me lo passai sulle mani, profumandole di fiori di ibisco.
Mentre facevo ciò cercando di riprendere il controllo di me stessa sentii la porta aprirsi e poi richiudersi, un altro scatto secco, ma non ci badai affatto, attenta a non strusciare contro la scottatura.
<< Sai, non mi è piaciuto affatto il tuo brindisi. >>
Sentii il sangue gelarsi nelle vene, i muscoli tendersi come una corda di violino e il fiato mozzarsi come prima di un'immersione inaspettata. Sbattei le palpebre più volte, non avevo il coraggio di voltarmi o anche solo di alzare lo sguardo dalle mie mani, le dita strette convulsamente in un intreccio disperato. Cautamente, con la speranza che fosse stato il sake a farmi immaginare quella voce, alzai gli occhi sullo specchio incrociandone un paio verde-azzurri. Mi venne da portare una mano alla lacrima che pendeva dalla catenina ma il mio corpo era interamente paralizzato. Mio Dio, sembrava che le sue iridi fossero state ricavate dallo stesso cristallo, o forse era il cristallo a essere stato ricavato da lui? Che pensiero stupido.
Riflessi nello specchio i suoi occhi avevano un'espressione dura, eco del suo viso dalla mascella contratta. Rabbrividii, cosa voleva farmi? Voleva forse darmele di santa ragione? Gemetti dal terrore, aumentando la stretta delle mie dita quando lo vidi chinarsi verso di me e allungare una mano. Non mi sfiorò affatto, ma chiuse l'acqua del rubinetto, e le mie mani rimasero sospese a mezz'aria private di qualsiasi contatto con la realtà.
Con uno sforzo immane e un piccolo aiuto dalla mente annebbiata dall'alcool mi volsi verso di lui, le mani si sciolsero dal loro intreccio andando ad afferrare saldamente il bordo del ripiano di marmo, avevo il fiato corto dal terrore. Abbassai lo sguardo non riuscendo a sostenere la sua espressione furiosa, permettendomi una rapida occhiata al suo abbigliamento: completo grigio scuro, scarpe nere, camicia bianca inamidata e cravatta nera. Dischiusi le labbra, il suo profumo mi arrivava alle narici, e una parte di me, quella piccola parte razionale di me che sembrava essere rimasta intaccata dai litri di sake che avevo ingerito, si domandò come facessi a riconoscere il suo profumo. La risposta mi arrivò chiara: quella stramaledetta notte.
<< E sai perché non mi è piaciuto, Lia? >> Deglutii quando calcò il mio soprannome, una parte di me avrebbe voluto urlargli che non aveva alcun diritto di pronunciarlo, ma rimasi saggiamente zitta. Si chinò ancora una volta verso di me, questa volta però le sue dita mi sfiorarono la gola, le sue labbra a pochi centimetri dal mio orecchio sinistro, il suo respiro mi faceva accapponare la pelle. << Perché io non sono un maniaco figlio di puttana, cara Lia. Non lo sono per niente. >>
<< No, infatti, sei un bastardo maniaco figlio di puttana. >>
La frase mi venne fuori automaticamente per colpa del sake. Alzai gli occhi incrociando i suoi, furibondi, come se all'interno delle iridi si fosse scatenata una tempesta incontrollabile di cui però non avevo paura. Mi diedi della pazza, sarei dovuta scappare quando ne avevo la possibilità. Ma ne avevo mai avuta una?
<< Un bel bastardo... >> aggiunsi con un filo di voce senza riflettere, le labbra socchiuse, inebriata dal suo profumo. Vidi la tempesta nel suo sguardo placarsi, l'ira venne sostituita da un luccichio più cupo che non riuscii ad identificare. Mi ritrovai ad alternare lo sguardo fra i suoi occhi e le sue labbra spinta da un desiderio profondo che stava lentamente impadronendosi di me.
D'un tratto, con le mani umide, afferrai il colletto della sua camicia e lo attirai a me, facendo incontrare le nostre labbra. Fu un bacio passionale, quasi animalesco, le dita di lui si serrarono sui miei fianchi schiacciandomi ancora di più contro il marmo, la sua eccitazione premeva contro il mio stomaco.
Dischiuse le labbra e sentii il suo respiro nella mia bocca, la sua lingua seguì meno di un istante dopo accarezzando la mia, seducendola e conducendola in una danza passionale che sperai non avesse mai fine. Le sue mani si abbassarono fino ai miei glutei e mi sollevarono facendomi sedere sulla porzione di marmo fra due lavandini. Ansimai nella sua bocca, avevo bisogno d'aria, e dei suoi baci. Le immagini di quella stramaledetta notte si ripresentarono nella mia mente, ma le ignorai, ciò che volevo era lui, solo lui. Mi ritrovai con le spalle schiacciate contro specchio, le sue mani si insinuarono sotto la canottiera accarezzandomi i fianchi, le coste, i seni coperti dal reggiseno. D'istinto gli circondai il bacino con le gambe, attirandolo così di più verso di me, le mani ancora strette contro il tessuto inamidato della sua camicia.
Le dita di lui mi sfiorarono i seni da sopra il reggiseno, un gesto privo di delicatezza, carico di desiderio. Ansimai staccandomi appena dalle sue labbra per respirare e riprendere poi da dove avevo lasciato. Sentii i suoi denti affondarmi nel labbro inferiore e tirare, mille scariche di piacere si concentrarono nel mio bassoventre facendomi inarcare contro il suo corpo, con una mano mi stringeva un fianco e con l'altra tormentava un mio seno. Ad un tratto, mentre intrecciavo le mie dita ai suoi capelli setosi, sentii una fitta di dolore al seno lì dove c'era un livido giallastro non ancora del tutto guarito.
Mi irrigidii interrompendo tutto ciò che stavo facendo e lui si fermò un istante dopo. Iniziai a tremare e mi portai le braccia al petto, incrociandole come se fossi stata nuda e fossi presa dalla vergogna. Sentivo le sue dita cercare di alzarmi il viso, ma avevo lo sguardo fisso sui nostri bacini pericolosamente a contatto, un contatto che una parte di me voleva, solo che oramai non sapevo più quale.
<< Hai messo la collana, ti sta bene. >>
La mano che ancora mi artigliava il fianco possessiva si strinse ancora di più rendendo quel contatto doloroso. Inspirai bruscamente, lasciando la presa sui suoi capelli e portandomi una mano al collo. Strinsi le dita attorno al cristallo e tirai con forza, uno scatto secco che fece saltare le maglie della catena d'argento, senza curarmi del dolore causato da quel gesto alla base del collo. Lo percepii sussultare, forse per la sorpresa, forse per la rabbia, non me ne importava più.
<< Non voglio essere la tua puttana. >>
Quelle parole ferirono più me che lui, almeno di quello ero certa. Chiusi gli occhi, la testa aveva cominciato a girare vorticosamente, la luce sembrava tremare e la vista mi si era appannata. Sentii le lacrime rigarmi le guance, le mani tremare mentre gettavo lontano la collana che finì chissà dove tintinnando sul pavimento. Cercai di spingerlo via, di rimettermi in piedi, ma i miei movimenti erano goffi e privi di forza. Gemetti quando le sue mani si strinsero attorno alle mie cosce, trascinandomi a sé.
<< Lasciami >> singhiozzai cominciando a colpirlo al petto, sulle braccia, anche sul viso, in qualsiasi posto che riuscivo a raggiungere con le mani. Lo sentii allontanarsi, ad un certo punto, e mi sentii libera di andarmene, avevo uno straccio di possibilità di lasciarmelo alle spalle, lui e i suoi regali che non volevo. Non desideravo né l'uno né tantomeno l'altro.
Scesi in fretta dal marmo, un senso di nausea mi attanagliava lo stomaco, la testa mi sembrava scoppiare ad ogni mio singhiozzo, le tempie pulsavano come la membrana interna degli altoparlanti lanciati a tutto volume. Mi presi la testa fra le mani e caddi in ginocchio, disgustata da me stessa, da ciò che avevo quasi fatto, da ciò che avevo fatto quella stramaledetta notte, dall'aver indossato quella collana rendendomi automaticamente la sua puttana.
Sentii le sue mani afferrarmi le spalle per farmi rialzare, ma diedi una forte scrollata che mi causò un'altra forte fitta alla testa, un altro gemito sfuggì incontrollato dalle mie labbra. Più salde, le sue mani tornarono ad afferrarmi e riuscirono a farmi mettere seduta dalla posizione rannicchiata che avevo assunto. Cercai di divincolarmi dalla sua presa ma invano, le sue dita stringevano con tanta forza da farmi male, e una parte della mia mente pensò ai lividi che avrei ritrovato sulle spalle la mattina seguente.
Singhiozzai nuovamente dimenando le gambe in cerca di un modo per rimettermi in piedi e sfuggirgli ma niente, non avevo forze. << Lasciami >> gli ordinai gemendo fra le lacrime. Oh, perché nessuno era venuto a controllare che non fossi caduta nel water? Il pensiero che potesse aver chiuso la porta a chiave mi mozzò il respiro e aumentò il terrore.
<< Lia, guardami. Guardami. >> Le sue parole sembravano una supplica ma avevano il suono di un ordine. Scossi ripetutamente il capo, mille aghi si conficcarono nella mia testa, un dolore insopportabile si propagò per tutto il mio corpo. Stress, odio, dolore, vergogna tutte le sensazioni che avevo accumulato da quella stramaledetta notte si erano liberate nell'istante in cui il sake aveva fatto effetto, distruggendomi completamente.
<< Lia... >> Ancora il mio soprannome. Feci per aprire bocca e urlargli che lui non avrebbe dovuto usare quel nomignolo, che non doveva nemmeno chiamarmi per nome, che doveva andarsene per sempre dalla mia vita ma non ce la feci, i miei nervi non avrebbero retto un minuto in più in quel bagno, stretta nella morsa dolorosa delle sue mani.
<< Lasciami >> riuscii a gridare infine mentre cercava disperatamente di togliermi le mani dalla testa. Poco mi importava che accorresse qualcuno al suono delle mie urla, anzi, probabilmente avrei eretto una statua in suo onore. La sua presa però rimase salda attorno ai miei polsi. Iniziai a scalciare come una bambina, le sue dita stringevano la destra nel punto in cui mi ero scottata quel pomeriggio provocandomi ulteriore dolore fisico.
<< Lasciami >> ansimai senza fiato, il cuore palpitava dolorosamente nel petto pompando sangue che pulsava dolorosamente nelle vene, bruciandomi dall'interno come se si fosse trasformato in lava incandescente. << Lasciami >> ripetei con un filo di voce, la vista che andava e veniva per la mancanza di ossigeno che aumentava d'istante in istante.
<< Dahlia >> lo sentii sussurrare, un suono lontano, ovattato che mi giunse mentre tremavo come se fossi stata trapassata da una scossa elettrica, le pareti iniziarono a vorticare attorno a me in un confuso caleidoscopio rosso e dorato.
<< Lasciami >> riuscii a sussurrare prima che i miei occhi diventassero ciechi e il mio cuore affondasse nelle tenebre.▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼▼
*Sono crollato, ma mi sono rialzato di nuovo, e poi sono crollato, ma mi sono rialzato di nuovo.
Vediamo un po', la canzone che mi ha ispirato questo capitolo è Alibi, l'ho ascoltata e riascoltata fino allo sfinimento - scherzo, coi Mars non potrei mai sfinirmi *^* - non che basi tutto sulle canzoni, ovvio, ma questa mi è sembrata a dir poco perfetta per descrivere Lia e ciò che ha passato e ciò che ancora adesso sta passando. Come capitolo, è il più lungo che abbia scritto finora e spero di aver fatto un buon lavoro - nel mio intimo penso di averlo fatto. Di molto aiuto è stato il sake, sì, devo ammetterlo xD
So che Lia può sembrare piuttosto lucida, ma non lo è, cioè, lo è ma nella parte perfierica della sua mente, lei sa ciò che succede, ma l'alcool muove il suo corpo assecondando i suoi desideri, e lei, nonostante tutto, desidera un contatto con quel bel bastardo. Adesso mi maledirete, ma fidatevi di me, a Lia tutto ciò che è successo non piacerà affatto, le conseguenze di quella notte si faranno sentire nel prossimo capitolo, e Lia preferirà davvero essere all'Inferno ;)
A presto,
bluerose
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A little piece of Heaven
RomanceDahlia Beauchamp, diciassettenne californiana di origini francesi, certo non si aspettava di passare a quel modo l'ultima notte di libertà prima di tornare ad essere una comune studentessa. Ma quando si risveglia in una camera estranea, con una chia...