Capitolo 6 - Colpevole
« I pray you'll be our eyes, and watch us where we go,
and help us to be wise, in times when we don't know,
let this be our prayer, when we lose our way.* »
Andrea Bocelli e Céline Dion, The Prayer
Con la mano stretta nella sua uscii di casa lasciandomi trascinare verso una Ferrari bianca sulla quale mai, mai avrei pensato di poter salire. Mi aprì lo sportello dal lato del passeggero una volta che vi fummo davanti e, quando dovetti lasciare la presa sulla sua mano, un vago senso di vertigini mi pervase. Sedetti sul basso sedile rivestito in pelle nera e misi la cintura, un gesto istintivo mentre la mia mente era focalizzata solo sull'idea di Bea sola in sala operatoria. Dio, che stupida ero stata! Avrei potuto salvarmi dall'accusa di averla lasciata sola dicendo che ero a dir poco ubriaca a che mi aveva portata via lui contro la mia volontà, ma il senso di colpa che mi attanagliava non se ne sarebbe comunque andato. Io l'avevo lasciata sola e lei ora rischiava... Strinsi gli occhi, non volevo pensare a cosa poteva andare incontro.
Mi sentii schiacciare contro lo schienale mentre l'auto partiva sgommando, la mie mani torturavano l'orlo della mia canotta mentre guardavo la strada senza però vederla davvero. Sobbalzai quando le mie dita vennero fermate dalla mano di lui, una presenza calda nel mio inferno gelido. Una parte di me si domandò come facessi a sopportare la sua presenza, ma la verità era che non lo sapevo nemmeno io, l'unica cosa di cui ero certa era che Bea aveva bisogno di me, e che con questa sua stramaledetta macchina sarei arrivata più velocemente che con la mia.
<< Dove l'hanno portata? >> mi sentii domandare dalla sua voce pacata, distante anni luce dall'inferno in cui stavo sprofondando sempre di più.
<< Ash lavora all'UCLA, >> sussurrai atona, la sua mano strinse maggiormente la mia, una lacrima solitaria lasciò il porto sicuro delle mie ciglia per finire sulla canottiera. Inspirai profondamente, la mia unica speranza era che i medici sapessero cosa fare, che arrivassi in tempo per farle percepire la mia presenza fuori dalla sala operatoria. Chi era sotto anestesia poteva percepire ciò che avveniva all'esterno? Non in modo razionale, ovviamente, ma poteva? Mi passai una mano sul viso, asciugando gli occhi umidi, e mi accorsi solo allora di ricambiare con tanta forza la sua stretta che le mie nocche erano sbiancate. Rimasi sorpresa, ma non allentai la presa, non volevo farlo, nonostante lui fosse lì con me, e io lo odiassi come un pacifista convinto odia la guerra.
Si schiarì la voce, la macchina aveva il cambio automatico, ne ero certa, ma ogni tanto la sua mano si spostava e sentivo il freddo del metallo sulla pelle. << Come mai lo chiami Ash? >> Non sorrisi, se me lo fossi sentita però ero certa lo avrei fatto, stava cercando di distrarmi.
<< Ha il pallino per i Pokémon, è ancora affezionato al cappellino logoro del protagonista che gli avevo regalato >> dissi, ricordandomi quel momento particolare. Allora sorrisi, alzai appena un angolo della bocca, eppure mi sentii più sollevata.
Ci fermammo ad un semaforo, non eravamo distanti, e io avevo certamente perso la cognizione del tempo e dello spazio. Forse era meglio così, o probabilmente avrei pensato che correndo sarei riuscita a raggiungere prima l'ospedale. Il motore faceva le fusa, una tigre bianca mansueta, ecco cos'era quella macchina, ma era davvero così ammansita come sembrava? Avrebbe potuto ruggire e superare tutti perché doveva proteggere i propri cuccioli?
Volsi il capo verso di lui, la mascella appena contratta, non minacciosa come in altre spiacevoli occasioni, gli occhi di un colore indefinito, magnetici, dai quali era stata ricavata la collana. Portai automaticamente la mano al collo, dimenticandomi che avevo gettato via la lacrima nel bagno del ristorante giapponese perché avevo scoperto la sua provenienza. Sussultai appena, mascherando quel gesto fingendo di massaggiarmi la spalla. Per un attimo mi sentii turbata e, bisognosa di non pensare a Bea sul letto della sala operatoria, aperta in chissà quale punto del corpo con i medici che stavano facendo di tutto per salvarla, dissi una cosa che sorprese anche me, una cosa che non pensavo avrei mai detto, che non mi avrebbe mai interessata. << Non so nemmeno come ti chiami. >>
Fu un sussurro appena percettibile, ma il muscolo della sua mascella si contrasse, stavolta l'espressione era dura, e mi si gelò per un attimo il sangue. I suoi occhi saettarono nella mia direzione, un istante prima di riportarli sulla strada e sul semaforo diventato verde. Ripartimmo, ma le sue labbra sottili si erano distese, nei suoi occhi c'era quello che sembrava un luccichio di ironia. Assottigliai le palpebre, davvero mi prendeva in giro? In un momento come quello?
<< Pensavo leggesi di più, Lia. >> Fossimo stati in una situazione completamente diversa, se lui non mi avesse praticamente stuprata e la mia amica non stesse rischiando la vita, io forse avrei messo il broncio lamentandomi del fatto che io leggevo, e anche molto, ma l'unico risultato che ottenne fu uno sbuffo. Aggrottai le sopracciglia, davvero pensava fosse noto a tutti? O che io leggessi poco? Strinsi le labbra, vagliando le possibilità, ma appena la mia mente si perdeva a cercare una risposta, l'immagine di Bea si faceva largo nella mia mente. Dovevo parlare, non pensare, o in ospedale mi avrebbero dato dei sedativi, e io questo proprio non lo volevo, io dovevo essere vigile per Bea.
<< Chi sei? >> domandai con un tono che esigeva una risposta. Forse ero stata troppo dura, eppure volevo saperlo. Lo volevo sapere ora, per necessità, probabilmente me ne sarei dimenticata una volta che fosse stato fuori dalla mia vita per sempre. Non mi sembrava di averlo visto sulle copertine dei libri, né sui giornali scandalistici, ma a dire il vero io quelle riviste non le leggevo, era Bea a preferirle, io mi concentravo più su riviste di cucina - quando si vive da soli c'è sempre un minimo di istinto di sopravvivenza, e il mio era incentrato prevalentemente sul cibo, il resto poteva anche sparire, a parte forse i libri e la buona musica, che in questi tempi era, ahimè, davvero sparita. Oltre ad una caterva di libri, io non leggevo molto altro, forse qualche volta mi dedicavo alle riviste di moda che mi passava Bea.
Bea. Sussultai, ero davvero riuscita a dimenticarla per qualche istante? Ero stata davvero così mostruosa da volerla dimenticare? Dio, ero proprio la peggiore delle migliori amiche.
<< Se leggessi di più, forse lo capiresti, >> ribatté lui, il signor C.C., evidentemente pensava di essere sulla bocca di tutti. Beh, sulla mia ci era stato... Scossi il capo, arrossendo violentemente ai non-ricordi e volsi il capo verso il finestrino per non farmi vedere da lui in quelle condizioni. L'avevo davvero pensato? Dio, ero stata davvero una stupida. Bea, dovevo concentrarmi su Bea. L'unica cosa che sapevo era che si trovava in condizioni critiche. Non sapevo tutto, e stavo pensando alle complicazioni più gravi che potessero incombere. Un'altra lacrima rigò il mio volto mentre tentavo di fare dei respiri regolari e controllati.
La macchina si fermò, la tigre smise di fare le fusa, e mi accorsi di essere ferma davanti all'UCLA, un posto che avevo visitato poche volte come paziente e diverse come visitatrice. Inspirai a fondo, osservando l'enorme struttura incombere su di me, nonostante fossi seduta, le gambe sembravano voler cedere una volta che avessi tentato di rimettermi in piedi.
Sentii la sua mano scivolare via dalla mia, e ad un tratto il panico mi travolse, voleva lasciarmi lì e impedirmi di seguirlo dentro l'ospedale? Accantonai subito quella stupida idea, evidentemente l'angoscia e l'apprensione giocavano brutti scherzi alla mia mente. Difatti, venne ad aprirmi lo sportello e scesi, appoggiandomi però a lui, come se fosse la mia ancora di salvezza. Avevo bisogno di sostegno, sperai lo capisse e che non travisasse i miei gesti, sarebbe stato altrimenti imbarazzante e falso, io non avevo bisogno di lui, non nel modo in cui voleva lui, non come benefattore. Benefattore dei miei stivali, lui mi aveva solo portata a letto per puro divertimento. Ma, nonostante il disgusto che provavo, non riuscii a staccarmi dalla sua mano.
Entrammo nell'edificio e subito mi vennero i brividi per via dell'aria condizionata e mi avvicinai al bancone dove una donna di colore stava digitando qualcosa al computer. Tossicchiai per attirare la sua attenzione. << Mi scusi, sto cercando Ashton... >>
<< Lia! Per fortuna sei arrivata! >> Volsi il capo in direzione del corridoio da cui proveniva Ash, il camice da infermiere tirocinante aperto e l'espressione stravolta certo non per l'alcool bevuto ieri sera. Rabbrividii nuovamente al pensiero di ciò che l'alcool aveva causato a me e a Bea. Notai lo sguardo di Ash soffermarsi sull'uomo in piedi accanto a me e sgranare gli occhi, ma poi volse il capo nella mia direzione. << Vieni, ti porto dal mio responsabile, lui saprà aggiornarci... >>
Strinsi le labbra e mi morsi l'interno della guancia. Se non aveva detto nulla nemmeno ad Ash, era improbabile che dicesse qualcosa a me. Ma avrebbe dovuto dirmelo, o sarei entrata io stessa in sala operatoria, non m'importava con quante persone avrei dovuto avere a che fare, non me ne importava affatto, l'unica cosa che volevo sapere era come stava Bea e se poteva essere salvata. Anzi, non se, ma come poteva essere salvata. Doveva essere salvata, non poteva morire. Non per colpa mia, non per una volta che l'avevo lasciata sola.
Entrammo nell'ampio ascensore del personale, evidentemente Ash stava andando contro innumerevoli regole per me, eppure, sapeva che se fossi stata al suo posto, l'avrei fatto anche io. Mi passai una mano fra i capelli, slegandoli, avevo freddo ma non volevo darlo a vedere. << Come è potuto succedere? Quanto sake ha bevuto? >>
Ash mi guardò con aria di rammarico, si stava mordendo il labbro per non dirmi qualcosa che mi avrebbe fatto molto, molto male. Alla fine si arrese con un sospiro sotto il mio sguardo insistente e pieno di lacrime. << Ha detto che, non avendoti in macchina, avrebbe potuto bere di più, perché con te si limitava nel bere... >>
Dovetti appoggiarmi alla parete di vetro dell'ascensore, il mondo iniziò a vorticare come se mi trovassi su una giostra. Strinsi le palpebre. Era colpa mia, era tutta colpa mia. Io avevo lasciato Bea nel momento del bisogno, non importava che fossi svenuta e lui mi avesse portata a casa contro la mia volontà, no, io l'avevo lasciata sola.
<< Lia, non è colpa tua... >> Sussurrò lui, era evidente che non sapesse nulla; per quanto potesse sapere tutto di me, lui non sapeva niente. Scossi il capo violentemente, le porte si aprirono su un altro corridoio poco affollato e Ash mi osservò un attimo fermo davanti ai sensori delle porte per impedire loro di richiudersi. Inspirai lentamente e annuii, muovendo un passo incerto verso di lui.
Raggiungemmo un uomo alto di mezz'età con in mano una cartellina intento a confabulare con quello che doveva essere un tirocinante, essendo il suo camice identico a quello di Ash. << Professor Kenneth, questa è la migliore amica di Beatrice... la signorina Davis. >>
L'uomo dagli occhi grigi che riprendevano il colore dei capelli a spazzola si volse verso di noi, guardandoci uno ad uno con aria di sufficienza. Una parte della mia mente pensò che nemmeno lui leggesse molto, non si era certo scomposto guardandolo in volto. Scosse il capo. << Non posso rivelare informazioni a persone non appartenenti alla famiglia. >>
Strinsi le labbra. << Io sono la sua famiglia, >> dissi con voce tagliente, ero l'unica che s'interessasse a lei, l'unica che davvero contava nella sua vita. Una piccola parte della mia mente si domandò se era effettivamente così, dopo quello che Bea aveva detto ad Ash. Forse, un po' di verità c'era, mi voleva talmente bene da non bere così tanto da mettere la mia vita in pericolo. Ma era giusto? Ero solo un freno per lei, o le facevo effettivamente bene? Optai, in quell'istante, per la seconda: se fossi stata con lei, ora non si ritroverebbe in quella stramaledetta sala operatoria.
<< Non mi è possibile dire alcunché a qualcuno che non sia suo consanguineo, mi spiace. >>
<< Ma... io... >>
<< Senta, signorina, non tradirò il segreto professionale solo perché lei è la fidanzata di turno di Christopher Carter, mi ha sentito? >>
Sbiancai e il cuore sembrò cedermi per un istante. Socchiusi gli occhi riducendoli a due fessure e avvampai. << Mi ascolti bene, >> dissi infuriata, << Bea ha perso la madre a dieci anni, suo fratello è a Madrid a studiare, una fuga dal padre che ora si trova alle Fiji in luna di miele perché a marzo si è sposato con la moglie numero sette, e le posso assicurare che dei suoi unici due figli non gli interessa un accidente. Vuole sapere come si è fatta Bea quella cicatrice sulla nuca? La matrigna numero tre l'ha spinta giù per le scale. Vuole sapere come si è fatta, invece, quella sotto il piede? Ha pestato la bottiglia di alcool che sua madre ha usato per ingoiare gli ultimi sonniferi che avrebbe mai preso nella sua vita. Le basta o devo continuare? Vuole sapere quando ha avuto il suo primo ciclo? Quando ha avuto il morbillo e l'ha attaccato anche a me? Vuole sapere quanto ha sofferto per il suo primo ragazzo? Vuole sapere anche perché ha iniziato a bere? >>
La voce mi si era fatta roca, le lacrime avevano iniziato a scendere da sole e io volevo solo sapere come stava Bea. Ma quell'uomo, quello stramaledetto dottore non voleva dirmelo perché non ero abbastanza legata a Bea. Suo padre, se l'avesse saputa morta, avrebbe fatto le condoglianze a me e non si sarebbe nemmeno scomodato di mandare dei fiori o a venire al funerale. Inspirai ed espirai lentamente, dovevo calmarmi, ma il sangue pulsava violentemente nelle mie vene tanto che mi sembrava di andare a fuoco.
Non distolsi lo sguardo da quello color acciaio del primario, nemmeno quando questo si fece più duro, quasi non battevo ciglio. Infine, si arrese, evidentemente non serviva affatto essere la fidanzata di un uomo importante, bastava dimostrare che ci tenevo. Forse l'avevo fatto con troppa foga, ma lo avrei affrontato con meno forza? No, mai.
<< La signorina Davis è stabile, le funzioni vitali sono nella norma, finalmente, ma, ecco, ha un problema. In effetti sono due, e non riusciamo a capire su cosa intervenire, in sala operatoria stanno cercando di fermare l'emorragia, ma rischia di perdere la gamba destra, e se dovessimo riuscire a salvare la gamba, c'è un'alta probabilità che rimanga paralizzata a vita. >>
Feci un passo indietro come se invece di parlarmi mi avesse tirato uno schiaffo. Mi sentii afferrare prontamente per un braccio, ma scivolai lo stesso in ginocchio sul pavimento in resina. In gola mi si era formato un nodo che mi impediva di respirare, ansimavo come in preda ad un attacco di panico quando cercavo disperatamente aria che non sarebbe mai arrivata.
Le sue mani mi sfiorarono le guance asciugandomele dalle lacrime salate. << Dahlia, Dahlia, rispondimi, >> mi chiamò lui, sembrava stesse ordinandomi di rispondergli.
<< Vado a prenderle un sedativo, ne ha bisogno. >> No! Non volevo un sedativo, dovevo rimanere lucida.
<< No, >> rispose secco come se mi avesse letto nella mente. Che l'avesse fatto?
Singhiozzai, i suoi occhi furono su di me, le sue mani mi sorreggevano ancora, nonostante fossi letteralmente seduta per terra in maniera scomposta. Lo guardai negli occhi. << Non le gambe, >> dissi riversando altre lacrime, << non le gambe! >> Questa volta la mia voce era stridula, e mi ritrovai fra le sue braccia a piangere come una disperata. << Non le gambe, ti prego... la ginnastica artistica... >> Come avrebbe fatto a sopravvivere alla paralisi o all'amputazione, privata della sua ragione di vita, della sua fonte di salvezza? << Ne morirebbe, >> sussurrai più a me stessa che a lui, la consapevolezza che una volta capita la sua situazione si sarebbe suicidata si fece largo in me. Era come Hilary Swank in Million Dollar Baby, era esattamente come lei, e io non volevo che finisse così, non lo avrei permesso.
<< Lia, se non possono fare nulla per lei... >>
<< No! No, ci deve essere qualcosa che possono fare, c'è sicuramente qualcuno che può fare qualcosa! >> Singhiozzai nuovamente, le mani strette a pugno e le unghie che penetravano nella carne. Alzai poi lo sguardo stravolto su di lui. << Tu... tu dovrai pur conoscere qualcuno, qualche medico specializzato in questo genere di cose... Tu... Io... >> Inspirai a fondo, sapendo che stavo firmando la mia condanna a morte. << Io verrò a letto con te, ti lascerò fare il tuo lavoro di benefattore se... se la salverai. Ti prego. >> Mi costò uno sforzo immane pronunciare quelle parole, ma sarebbe stato più doloroso vedere Bea vivere la sua vita come un mezzo vegetale.
Vidi i suoi occhi sgranarsi, l'espressione farsi dura e lo sguardo diventare gelido, tagliente come una lastra di ghiaccio. No. << No, >> disse, ed io affogai nelle lacrime sprofondando nel panico. No? Perché no? Singhiozzai cercando di allontanarmi da lui ma le sue mani mi tenevano stretta, le dita sembravano penetrare la carne tanto forte mi stringevano. << No, Lia, non così. >> Quel sussurro mi lasciò interdetta, cosa intendeva? Aprii la bocca per supplicarlo ulteriormente ma d'improvviso mi trascinò in piedi con sé solo per farmi sedere su una delle seggiole di plastica bianca. Lo guardai interdetta, Ash e il suo professore si erano allontanati e stavano confabulando circa qualcosa che non riuscivo ad afferrare, ma probabilmente riguardava Bea, Ash non avrebbe certo demorso.
Lui si allontanò e io lo seguii con lo sguardo, incapace di rincorrerlo per poi inginocchiarmi ai suoi piedi e implorarlo di fare quella stramaledetta chiamata. Non avevo la forza di muovere un muscolo, riuscivo a respirare solo sforzandomi, sbattere le palpebre era necessario per liberarmi delle lacrime che mi offuscavano la vista. Allontanandosi, lo vidi tirare fuori il cellulare. Il mio cuore iniziò a battere sempre più veloce, sentii le mie labbra stendersi in un sorriso gioioso. Stava davvero facendo quella chiamata. Per me. Ma allora perché aveva detto di no? Non riuscivo a capire, ma in quell'istante poco me ne importava, stava facendo quella chiamata e Bea sarebbe stata salva.
Mantenni lo sguardo fermo sulla sua figura per tutto il tempo, fino a quando non chiuse la chiamata e tornò verso di me, lo sguardo turbato, aveva dovuto fare uno scambio, soldi o proprietà? Esisteva ancora qualcuno che vendeva proprietà per un favore? Scossi appena il capo per scacciare quegli insulsi pensieri e feci per alzarmi. Fu la sua occhiataccia a fermarmi, non voleva che mi muovessi di un millimetro, forse non aveva chiamato un qualche medico famoso esperto in questo genere di emergenze? Forse aveva chiamato qualcun altro, qualcuno che non avrebbe salvato Bea. Il mio cuore perse qualche battito, avrebbe potuto farlo davvero? A quanto pareva, sì. Affondai il labbro nei denti, il mio odio nei suoi confronti, appena accentuato negli ultimi minuti ritornò alla carica con una furia tale da farmi mozzare il fiato, era possibile odiare così tanto una persona?
Lo vidi dirigersi verso il medico, e tesi le orecchie per carpire informazioni di vitale importanza. << La ragazza verrà operata da Elias O'Neill, gli ho spiegato la situazione e arriverà fra meno di venti minuti. Ha dato precise istruzioni di non andare ad operare sul midollo spinale né su tutta la colonna vertebrale fino al suo arrivo ma di cercare di arrestare l'emorragia chiudendo l'arteria femorale, ma presume che i suoi chirurghi vi abbiano già pensato. >>
Sentii il cuore più leggero, la gioia era talmente tanta che avrei potuto volare fino all'altra parte del mondo e tornare indietro. Aveva fatto quella chiamata, aveva chiamato il miglior chirurgo specializzato in materia, e lo aveva fatto per me. Forse per il mio corpo, per portare a termine la sua missione, ma in un certo senso mi aggrappavo ancora alla sua risposta negativa e secca di prima. Perché aveva detto di no se poi aveva chiamato?
<< No, >> replicò il dottor Kenneth, il tono infuriato, << non permetterò ad un medico radiato dall'albo di esercitare in quest'ospedale. >>
Che cosa? Sgranai gli occhi, aveva chiamato un medico radiato? No, non era possibile, ma non era nemmeno possibile che per salvare una vita un dottore non chiudesse un occhio. Era pur sempre una persona, avrei scommesso l'anima che se fosse stato lui sotto i ferri al posto di Bea, avrebbe pregato anche il Diavolo in persona di salvarlo.
<< Elias non è stato radiato, è uno dei migliori medici di Los Angeles. Dovete permettergli di salvare quella ragazza. >>
<< Non accetterò uno stupido bamboccio nel mio ospedale! >> Oramai il dottore aveva il volto paonazzo e gli occhi sembravano pronti a fuoriuscirgli dalle orbite. Avessi avuto la forza di alzarmi, sarei andata da lui e gli avrei tirato un sonoro schiaffo, ma le gambe tremavano al solo pensiero di muoversi ancora, sarei ritornata a sedere ancora prima di mettermi correttamente in piedi. Ciò però non mi fermò dal guardarlo con il fuoco negli occhi.
<< Questo non è il suo ospedale, dottor Kenneth, >> disse una voce profonda, calma ma con una vena di irritazione. Osservai l'uomo alto sulla quarantina che si stava avvicinando al professore, un uomo di carnagione scura che fece diventare l'arrogante professore piccolo quanto un topo. Doveva certo avere un grado maggiore del suo.
<< Dottor Jennings, come può permettere a quel tale di venire qui e operare come se questo fosse il suo ospedale? >> Kenneth sembrava proprio punto sul vivo, e io avevo bisogno di seguire la conversazione e difendere quel dottore che avrebbe salvato Bea, O'Neill. Mi alzai facendo appello a tutte le forze rimastemi e raggiunsi i quattro, sentivo la pelle tirata per le lacrime oramai asciutte.
Vidi Jennings alzare un angolo della bocca a mo' di saluto nella mia direzione, poi riportò gli occhi scuri su Kenneth. << Se O'Neill ha intenzione di venire qui e operare questa ragazza, che lo faccia pure, ha la mia autorizzazione, dopotutto ci siamo già avvalsi di specialisti, in passato, per interventi delicati. Questo non è da meno. Torni alle sue scartoffie, Kenneth. >>
Se non fossi stata spossata e dannatamente preoccupata per Bea, probabilmente sarei saltata al collo di quell'uomo, ma mi trattenni e gli rivolsi solo un pacato sorriso riconoscente. Mi sentii stringere una spalla, Ash mi stava guardando raggiante, incurante che il responsabile del suo tirocinio avrebbe potuto bocciarlo per il suo affronto. Ricambiai lo sguardo con la stessa intensità, sapere che Bea avrebbe potuto camminare e gareggiare di nuovo mi faceva sentire leggera come una piuma.
Mentre Kenneth se ne andava imprecando sottovoce a passo svelto, Jennings si volse verso il mio accompagnatore, un poco contrariato. << Nonostante avesse dovuto rivolgersi a me, signor Carter, ha fatto bene ad effettuare quella chiamata, se fossi stato a conoscenza della gravità della situazione probabilmente l'avrei fatta io stesso. >> Lo sguardo del dottore si posò su di me. << Immagino lei non voglia prendere dei tranquillanti, signorina, ma le consiglio di mangiare qualcosa, dopo una sbronza una buona colazione è quello che ci vuole per ridare al corpo le energie spese. >> Trasalii e arrossii violentemente, abbassando lo sguardo sugli anfibi. Era così evidente che avessi bevuto oppure aveva riconosciuto i sintomi solo perché era un medico? Sperai nella seconda ipotesi, ma annuii timidamente con un cenno del capo.
Sentii nuovamente la sua mano sfiorare la mia e trascinarmi dolcemente verso le seggiole, lontano da Ash e Jennings che avevano incominciato a parlottare di questo O'Neill. Mhm, evidentemente non leggevo abbastanza per essere informata quanto loro. Mi lasciai cadere pesantemente sulla sedia, guardandolo mentre si inginocchiava davanti a me. << Vado a prendere qualcosa da mangiare, ma promettimi di stare ferma qui. >> Il suo era un ordine, la voce appena velata dalla stanchezza, evidentemente non aveva dormito affatto, quella notte. Ricordai la sua conversazione al telefono nella cucina di casa mia, quando aveva detto che avrebbe finito un bozzetto per mezzogiorno, se però fosse rimasto lì con me, non ne avrebbe avuto il tempo. Quando però feci per dirgli di andarsene a casa, lui era già partito alla ricerca della mia colazione.
Sospirai prendendomi la testa fra le mani. Lo stavo trattando come un conoscente, eppure il mio odio per lui non era ancora sparito, non cresceva né diminuiva, stava lì, nel mio intimo, a ricordarmi che lui mi aveva rovinato la vita. Ma era anche vero che, nonostante tutti i miei insulti, lui era rimasto con me e aveva chiamato uno dei più famosi medici di Los Angeles per salvare la vita e la carriera di Bea. Mi passai una mano sulla fronte, non sapevo più cosa pensare, non sapevo neppure cosa dovevo sentire, io lo odiavo, eppure gli ero pure grata. Come poteva essere accaduto? Poteva accadere così, e basta?
<< Lia? >> Ash si chinò davanti a me, gli occhi pieni di lacrime non versate, non poteva permetterselo.
<< Oh, Ash, come ho potuto? >> Ed eccolo lì, di nuovo, il senso di colpa per non aver badato a Bea quando avrei dovuto farlo. E invece avevo pensato a me stessa, un'altra volta. Potevo essere più stupida?
Sentii le dita di Ash stringere le mie. << Non fartene una colpa, Bea sapeva a cosa stava andando in contro, e tu stavi male. >>
Strinsi le palpebre, non era andata così, io ero svenuta, sì, ma alla fine me n'ero andata comunque, lasciandola lì da sola in preda ai suoi demoni interiori. Come avevo potuto? Singhiozzai, Bea era sempre stata un'irresponsabile, non di natura, ma lo era diventata in seguito alle molte delusioni da parte di suo padre, era una bomba pronta ad esplodere e, alla fine, era esplosa davvero, ed ero stata io ad accendere la miccia. << È tutta colpa mia, Ash, lo sapevo che se l'avessi lasciata sola si sarebbe fatta del male. È già successo, ma tu non puoi saperlo. >>
Era successo in terza media, quando ero dovuta andare in Francia una settimana, ogni giorno io e Bea ci telefonavamo, la morte della madre era ancora una ferita aperta dentro di lei, ma grazie a me e alla nostra compagnia aveva superato il lutto. Ma tutti noi ci eravamo sbagliati, e nei due giorni che impiegai per tornare da Parigi, lei aveva fatto ciò che non avrei mai pensato avrebbe fatto. L'avevo trovata nella vasca da bagno ancora vestita, l'acqua calda che scorreva e lo sguardo vacuo mentre osservava il taglio sul polso dal quale sgorgava sangue. Con non so quale coraggio ero entrata nella vasca con lei e le avevo tolto di mano il coltello da cucina, mia madre aveva chiamato il 911 e io avevo premuto con un asciugamano la ferita di Bea. Suo padre aveva appena sposato la moglie numero cinque e si trovava a Mosca, lei e suo fratello erano soli a casa con una tata che preferiva guardare le soap opera brasiliane piuttosto che loro. Quando Bea si era ripresa, avevamo fatto finta con tutti gli altri che si fosse trattato di una distorsione dovuta ad una caduta durante una lezione di ginnastica artistica. Da allora Bea era praticamente rimasta ogni giorno a casa mia col benestare di suo fratello, sotto l'occhio di mia madre che si era presa per la prima volta nella sua vita un anno sabatico dal lavoro. Fortunatamente, l'episodio non si era mai ripetuto, ma Bea aveva iniziato a bere, dapprima cose leggere, poi era passata ai drink più forti e ai superalcolici. Il sentirsi abbandonata anche da me l'aveva ridotta così e, come era accaduto in terza media, mi era bastato distogliere lo sguardo da lei perché si facesse del male. La cosa non mi pesava, non la sentivo come un bagaglio da portarmi sempre appresso, io volevo farlo, volevo essere il suo appoggio, la sua ancora di salvezza, ma avevo perso la presa su di lei e per colpa mia era quasi annegata. Sussultai soffocando un singhiozzo.
L'inconfondibile profumo di cioccolato mi fece capire che lui era tornato trionfante. Lo guardai con gli occhi arrossati mentre, torvo in viso, si avvicinava reggendo una busta di carta e una bottiglietta di succo di frutta alla pesca. Mhm, sembrava proprio che l'unica cosa che non sapesse di me era ciò che pensavo, e a volte intuiva anche quello. Nonostante ciò, sorrisi timidamente nella sua direzione. Ash si era allontanato, non avevo potuto vedere la sua espressione, ma se non si fosse fidato di lui, certamente gli avrebbe consigliato di starmi alla larga. Con movimenti fluidi si sedette accanto a me porgendomi il sacchetto. Sbirciai dentro e il mio stomaco si dilatò a dismisura. All'interno del sacchettino c'erano tre croissant al cioccolato la cui sfogliatura era inequivocabilmente francese, l'odore del burro era palpabile nell'aria. Dovevano costare l'ira di Dio, perché venivano da uno dei più cari bistrot del circondario - e forse di tutta Los Angeles. In poche parole, questi erano davvero francesi, pieni di burro, ruvidi e deliziosi. Ne afferrai uno quasi con deferenza e ne staccai la punta con estrema delicatezza, facendo attenzione a non spargere le briciole dappertutto. Erano ancora caldi e per questo ancora più deliziosi, perciò addentai una microscopica parte del pezzettino che avevo in mano e mi sentii liquefare come burro al sole. Chiusi gli occhi, ecco perché i croissant francesi erano i migliori in assoluto. Sospirai beata e mangiai anche l'altra parte della punta del dolce che mi era rimasta in mano, mordicchiandomi il polpastrello per tirare via una briciola che mi si era appiccicata alla pelle. Notai, con la coda dell'occhio, lo sguardo di lui fisso su di me, le labbra dischiuse. Arrossii violentemente e per un attimo mi si chiuse lo stomaco per l'agitazione.
Addentai senza vergogna la pasta del croissant, famelica, e uno schizzo di cioccolato fuso mi riempì la bocca scottandomi la lingua e il palato. Lentamente masticai e ingoiai, e quando stavo per avventarmi su un altro pezzo di quel ben di Dio, qualcuno si fermò davanti a noi. Chiusi la bocca serrando le labbra in una linea sottile mentre alzavo lo sguardo su quello che doveva essere Elias O'Neill, scarpe da ginnastica francesi oramai introvabili, jeans attillati e camicia nera infilata in fretta dentro i pantaloni sostenuti sui fianchi snelli da una cintura in pelle. Al polso portava un orologio decisamente elaborato - doveva essere un Montegrappa, doveva esserlo! - e stringeva una valigetta di cuoio piuttosto consunto. Alzai lo sguardo incrociando gli occhi castani di lui, accesi da un'ilarità contagiosa. Era carino, decisamente, la mascella squadrata, il naso dritto e sottile, come le labbra, un lieve accenno di barba biondiccia e capelli corti sul castano scuro.
<< Prenditi il tempo che vuoi, radiologa, poi però voglio vedere le mie lastre. >> Sussultai e arrossii, abbassando lo sguardo imbarazzata, cercando di balbettare una scusa, senza però riuscire a pronunciare alcun suono.
<< Elias, questa è Dahlia, l'amica della ragazza che devi operare, ti conviene sbrigarti >> lo sollecitò l'uomo seduto accanto a me, il suo nome mi rimbombava nella mente, ma non volevo ammetterlo a me stessa. Era una cosa troppo imbarazzante, umiliante addirittura.
Vidi O'Neill annuire, il sorriso non abbandonava le sue labbra rosee, una fossetta gli si era disegnata sulla guancia sinistra. Si chinò verso di me e addentò un pezzo del croissant, lasciandomi esterrefatta quando lo vidi andarsene e portare la mano in alto a mo' di saluto. Non potei impedirmi di mettere il broncio e guardare corrucciata ciò che rimaneva della mia colazione. Decisa a non lasciarmi abbattere per essere stata trattata come una bambina - certamente ai suoi occhi lo ero - finii il croissant in pochi morsi, masticando con le guance gonfie di indignazione. Assettata, afferrai bruscamente la bottiglietta di succo alla pesca che lui teneva in mano. Bevvi una lunga sorsata che mandò giù il boccone che sentivo in gola, io e la mia maledetta golosità, un giorno o l'altro mi sarei davvero strozzata. Sospirai, dovevo calmarmi. Istintivamente, le dita della mia mano sinistra si mossero sui jeans, con lo sguardo fisso nel vuoto, avevo ceduto al disagio, al nervoso, e, incapace di calmarmi, continuai a pigiare tasti invisibili a velocità moderata, canticchiando a labbra serrate.
<< Cosa stai suonando? >> La sua voce melliflua mi entrò nelle ossa, era calda, pacata. Abbassai lo sguardo sulla mano che ancora si muoveva automaticamente, come se avesse una volontà propria e non fosse nemmeno attaccata al mio corpo. La strinsi a pugno, affondando le unghie nel palmo della mano, Bea era solita fermarmi e basta, non assecondarmi. Emisi un flebile sospiro e abbassai gli occhi per un attimo.
<< The Prayer, >> risposi infine, era una delle canzoni che in quel momento mi sembravano più appropriate, oltretutto era stata usata in uno dei cartoon più belli che io avessi mai visto in vita mia, e anche se riadattata, esprimeva esattamente ciò che pregavo: che Bea si salvasse, che tornasse a gioire con me e i miei amici, che tornasse ad essere una ginnasta. Quasi con la speranza che il succo si trasformasse in birra o in qualche altra bevanda alcolica, ne bevvi due lunghi sorsi e mi fiondai sul secondo croissant. La porta bianca accanto a quella della sala operatoria si aprì e vi entrarono Elias O'Neill con il primario. Il cuore iniziò a palpitare come non mai, di nuovo l'ansia si fece padrona di me.
Terminai il croissant in pochi morsi, ignorando il cioccolato fuso ancora caldo che schizzava nella bocca incendiandomi lingua e palato. Ad un tratto mi sentii afferrare e infilare un paio di cuffiette e la voce di Céline Dion si diffuse in tutto il mio corpo fin dentro le ossa. Abbassai le palpebre, mimando con le labbra le parole della canzone che conoscevo a memoria, comprese quelle in italiano, mamma aveva sempre sperato che lo imparassi alla perfezione o quasi, ma il mio accento era talmente disastroso che alla fine non ci aveva nemmeno provato più.
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A little piece of Heaven
RomanceDahlia Beauchamp, diciassettenne californiana di origini francesi, certo non si aspettava di passare a quel modo l'ultima notte di libertà prima di tornare ad essere una comune studentessa. Ma quando si risveglia in una camera estranea, con una chia...